
L'intervista
Edoardo Bennato: «L’arte deve essere libera: io non riesco a ballare con gli altri burattini. Mi rivolgo solo ai “militanti del rock”»
In occasione della Festa della mamma, il Secolo ha sentito l'autore di quello che è il più noto inno alle madri italiane: "Viva la mamma". «Gli spocchiosi della lobby politica e della cultura la criticarono. Per loro non era abbastanza impegnata»
«Noi viviamo in un’era in cui, a parte i nostri buoni propositi e i nostri buoni sentimenti, siamo tutti operativi e operanti in certi ambiti, dove ognuno parla a suo uso e consumo». L’intervista a Edoardo Bennato inizia con questa premessa, che da questa parte della cornetta suona come un garbato, quanto risoluto avvertimento. Accompagnato dalla premessa che «quel poco che si sa di me è confuso e nebuloso». Ho la sensazione che non stia prendendo una buona piega, ma con spirito socratico sposo l’idea di sapere di non sapere. Un fondamentale però resta: Edoardo Bennato – attualmente impegnato in un tour che fino a settembre farà tappa in tutta Italia – non è incasellabile, se non nello spirito del rock, e questo comporta dei rischi, che lui stesso ha accolto, sempre, con piena consapevolezza: «Il rischio è quello di avere contro “tutti”… O almeno tutti i “militanti” di una fazione politica o di un’altra. Ma io mi rivolgo solo ai “militanti” del rock», chiarisce il cantautore-rocker, autore tra l’altro di Viva la mamma, il più famoso inno alle madri italiane e spunto per sentirlo in occasione della Festa della mamma. Ecco, anche quella canzone – di cui esiste anche una grintosa versione cantata dalla figlia Gaia quando era bambina – fu, in qualche modo, un azzardo.
Nel documentario “Sono solo canzonette” andato di recente in onda su Rai 1, c’è chi sottolinea che parlando della mamma in una canzone rock lei ha rotto un tabù. Lei stesso dice che con quel brano si addentrò su «un terreno minato». Altro che canzonetta?
«Viva la mamma è una canzone “leggera”. I cosiddetti eletti della musica, gli spocchiosi della lobby politica e della cultura, dissero “ma come? Bennato ha sempre parlato di cultura, politica, problemi sociali e invece adesso ci propone una canzonetta divertente sulla mamma”. Ma quella canzone faceva parte di un concept album intitolato Abbi dubbi, che propone il dubbio come elemento importante della nostra natura di umani, e il richiamo agli anni ’50 ha una valenza sociale, culturale. Poi ognuno le cose le scrive e le dice a proprio uso e consumo…»
Dunque, “Viva la mamma” è una canzone di carattere sociale?
«Viva la mamma nasce prima di tutto come un modo per rendere omaggio a mia madre, alla quale devo tutto, anche il fatto di essere musicista. Fu lei a indirizzarci alla musica. E poi è un omaggio alle madri in genere, a tutte le donne che assolvono una funzione fondamentale nella nostra società, nella nostra comunità umana, perché sono quelle che si rimboccano le maniche nei momenti di emergenza ed evitano che si arrivi alla catastrofe. Le donne, con il loro istinto, il loro buon senso, il legame che hanno con la natura riescono a essere propositive in ogni circostanza e, anche se apparentemente sembrano più deboli dei maschi, sono più forti. Questo c’è anche nel musical Peter Pan».
Spieghi.
«La scena fondamentale è quando Wendi dice a Peter che, sì, sull’Isola ci si diverte, si gioca tutto il tempo, ma lì lui resta un eterno bambino. Peter Pan è come tutti gli uomini, che non vogliono crescere. Nell’Isola c’è un rifiuto della realtà. E, invece, Wendi la vuole affrontare, vuole diventare una donna, con tutti i rischi che questo comporta».
È la seconda volta che parla di rischi…
«Io vengo dal cortile proletario di Bagnoli, che era anche multietnico perché c’erano operai e impiegati di Italsider da ogni parte d’Italia. Io ho iniziato questa attività con i miei amici del cortile, non ho manager o impresari. Ci sono loro, gli amici del cortile, che mi seguono. C’è l’amico della Scala G, quello della Scala F, Franco De Lucia in questo momento si è assunto l’onere e l’onore di fare il manager, mentre il 90% dei cantanti e cantantucoli, bravi o non bravi, ha grossi manager, fa parte di una scuderia. Mangiafuoco, che è un personaggio collodiano del quale ho parlato a suo tempo, è il burattinaio, quello che tiene i fili e fa ballare i burattini. Io non riesco a ballare con gli altri burattini, non so se sia un merito, un pregio. In questo momento è anche un handicap, perché innesco una serie di equivoci».
Sul suo “posizionamento”? Sempre nel documentario Massimo Tassi dice: «Lui non sta da nessuna parte, l’arte non deve stare da nessuna parte». È così?
Sì, è così: l’arte non deve stare da nessuna parte. Sono i politicanti senza scrupoli che non accettano questa idea. Vogliono che i cantanti siano tutti schierati, come soldatini. Capitan Uncino, nel musical, dice “Peter Pan è solo un qualunquista, un esibizionista, di tutti i miei nemici è il più pericoloso, è il primo della lista”. È illividito, è violento, non può accettare che Peter Pan svolazzi sopra tutto e tutti. Ma Peter Pan, con tutti i difetti che ha, non vuole avere padroni. In Italia ora c’è un contrasto feroce tra due fazioni che si combattono senza esclusione di colpi. Io faccio rock&roll, intendo essere propositivo, attivo e dare buone vibrazioni con musica.
Le sue, però, sono canzoni anche molto politiche.
Le canzoni non devono essere trattati di sociologia o geopolitica. Devono essere diffusori di vibrazioni e accumulatori di energia, emozione e propositività. Anche se questo non esclude il fatto di avere una visione di ciò che accade. Io fin dalla prima ora cerco di complementarizzare – ahimè sempre a mio rischio e pericolo – l’attività cialtronesca di musicante, saltimbanco, “pazzaglione”, con quella di architetto, urbanista e sociologo. Ad esempio, nel disegnare la copertina del concept album La Torre di Babele, l’obiettivo era quello di esplicare la metafora biblica: “Gli uomini nella loro presunzione pensarono di poter sfidare la natura e costruire una torre che arrivasse fino al cielo, ma la natura li punì, confuse le loro lingue, non si capirono più l’un l’altro. E si fecero la guerra, sempre più feroce”. Ed infatti, man mano, nel corso dei secoli, le armi diventavano e diventano sempre più sofisticate. L’ho regalata anche a Papa Francesco in occasione di una delle mie partecipazioni a concerti in Vaticano.
Lei dice che le sue canzoni nascono sempre in un finto inglese. Che vuol dire?
Che quando creo una frase musicale, inizialmente me la canto in finto inglese. Le mie ballate, canzoni, canzonette e canzonacce, nascono in finto inglese, poi arriva il testo in italiano, e a volte dopo tanto tempo e fatica.
Adesso però le sta traducendo dall’italiano al “vero” inglese…
Sì, stiamo trattando con manager americani e inglesi per la traduzione in inglese di Peter Pan. Loro considerano la nostra cultura musicale “rubbish”, spazzatura, ci considerano patetici replicanti degli americani, come tutti questi giovani che fanno rap.
Anche lei però in qualche modo è figlio di quella musica. Il film “Joe e suo nonno” del 1992, di cui è protagonista con Arbore e Banfi, esplicita il legame con le sonorità blues e rock. C’è chi dice che La Torre di Babele, del 1976, sia stato il primo esperimento in cui quelle sonorità si legano al dialetto napoletano.
Quello era un film su Napoli, sugli eterni paradossi di questa città che è la più bella del mondo e in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere. Già nel 1974 avevo cominciato a coniugare il blues con il sound-dialetto napoletano in brani come Ma chi è. Ne è nato qualcosa di nuovo, diverso.
Napoli, come la mamma, è molto presente nelle sue canzoni. Quanto contano per lei le radici?
Quanto contano è implicito in tutto questo.