
L'intervista
“Femminicidi, un impulso che nasce dal nulla interiore “. Viaggio nella mente dei killer con lo psicoterapeuta Semerari
Antonio Semerari, è uno dei maggiori psicoterapeuti italiani. Fondatore del Terzo Centro di Roma, è considerato uno dei padri del cognitivsmo. Con lui abbiamo affrontato il tema dei femminicidi.
Perché quando si parla di femminicidi si tira automaticamente in ballo il narcisismo?
“Perché effettivamente molti dei soggetti che commettono questo reato lo fanno all’interno di una dinamica narcisista. Provo a spiegarmi. Possiamo pensare alla dinamica narcisista come ad un processo dove il soggetto tenta di combattere un senso di nulla interiore e il timore di essere trattato come un nulla attraverso una forma di esaltazione della propria immagine che possa farlo sentire vivo e speciale. Uno dei mezzi con cui cerca di raggiungere questo stato è attraverso l’ammirazione di una persona significativa da cui, di fatto, dipende per mantenere un certo senso di coesione interiore. Quando questa persona minaccia, in un modo o nell’altro, di sottrargli questa ammirazione si sente precipitare nell’inconsistenza e, per impedirlo, può diventare violento e abusante fino al delitto. Detto questo vorrei anche spezzare una lancia contro lo stigma terribile che si sta diffondendo verso il narcisismo. Un’insignificante minoranza di questi pazienti commette reati. Se stiamo alle statistiche è vero, ed è sempre stato vero, che si ha più probabilità di essere uccisi da qualcuno che non rientra in alcuna categoria da manuale diagnostico”.
Dal caso Impagnatiello a quello Turetta si tira in ballo l’ossessività dell’assassino verso la vittima. Cosa scatta in questi casi?
“Credo che i due casi che ha citato siano piuttosto diversi tra loro. Ritengo che l’espressione si riferisca al fatto che durante il processo che porta all’omicidio pensano continuamente a ciò che la futura vittima possa pensare, provare o non pensare e non provare rispetto a loro. Questo non va confuso, come ho sentito fare in un dibattito, con il disturbo ossessivo-compulsivo, che non c’entra assolutamente nulla e che riguarda semmai soggetti pieni di scrupoli e ossessionati dal timore di commettere una colpa”.
Il vuoto nichilistico, l’assenza dei punti di riferimento ideologico e spirituale porta ad una sorta di esaltazione dell’io?
“Mi perdoni una terribile semplificazione. Ci sono tre cose che ci fanno sentire vivi. La prima è l’intima convinzione che la nostra vita abbia un senso. La seconda è l’amore per le persone e per le cose. La terza è l’orgoglio. In una società completamente laicizzata come la nostra la certezza di senso è perduta irrimediabilmente, almeno come certezza. Se per qualche ragione è indebolita la capacità di amore resta solo l’orgoglio. Ma l’orgoglio, che è una risorsa sana insieme alle altre due, se diventa l’unica risorsa per sentirci vivi si perverte in una coazione. Ci ritroviamo costretti ad essere sempre orgogliosi di noi stessi per non sprofondare in un senso di morte interiore. Ma siccome non si può essere sempre orgogliosi di sé, questo comporta una distorsione del giudizio su di noi, un uso strumentale degli altri a questi fini ed un assurdo culto del proprio io. Tutto ciò, per altro, non elimina e non può eliminare la minaccia del nulla”.
Lei ha iniziato a scrivere di cognitivismo con Francesco Mancini. Come si è evoluto il concetto di psicoterapia in questi anni?
“Credo che la novità maggiore sia stata l’ingresso massiccio della ricerca in psicoterapia. Possiamo dire che, in questi anni, la psicoterapia è diventata sempre più una disciplina scientifica. In questo credo ci sia un certo merito del cognitivismo. Allo stesso tempo è diventata, per certi versi, meno colta. E forse qui c’è un po’ di colpa del cognitivismo”.
Anche nei casi di femminicidio si parla più di tratti (Impagnatiello) che di disturbi veri e propri?
“Mi permetta di non entrare nella valutazione di singoli casi che conosco per il sentito dire della cronaca. Ovviamente dipenderà dal singolo caso rispondere alla sua domanda. Vorrei ricordare ancora che non tutti i femminicidi hanno come matrice una logica di questo tipo. Nel caso della giovane musulmana uccisa dai parenti perché si rifiutava di accondiscendere ad un matrimonio combinato, ad esempio, non vedo nessuna dinamica narcisista. In questo caso si tratta di fedeltà, aberrante come si vuole, al proprio ruolo e ai propri valori sociali. In questa logica assurda il delitto può persino essere vissuto come un doloroso dovere più che come una difesa psicologica del senso di sé come avviene nella dinamica narcisista. Se la domanda si riferisce alle implicazioni riguardo ai problemi di responsabilità e imputabilità, allora bisogna ricordare che un disturbo di personalità non esclude affatto la responsabilità a meno che non sia associato ad altri disturbi”.
I femminicidi sono fortunatamente in calo. Quale può essere una giusta prevenzione?
“Questa è una domanda molto difficile a cui si danno risposte molto semplicistiche. Certe campagne di sensibilizzazione possono avere sui giovani persino effetti controproducenti venendo prese come prediche da sbeffeggiare. Il fatto è che la pretesa di poter influire seriamente sui processi culturali di fondo è spesso un’illusione. Mi dica, nella storia, chi ci è veramente riuscito? Certamente non bisogna rinunciare ad educare ai valori del rispetto della persona. Ma penso che, alla fine, la cosa più efficace sia fornire alle donne i mezzi intellettuali e legali per difendersi”.