CERCA SUL SECOLO D'ITALIA

Ecologia e conservatorismo: radici comuni per una transizione sostenibile che non tradisca i territori

Contro le eco-follie

Ecologia e conservatorismo: radici comuni per una transizione sostenibile che non tradisca i territori

Dal pensiero di Burke a quello di Scruton, un viaggio tra dottrina conservatrice e critica al tecnocentrismo ambientale europeo, per restituire centralità alle comunità e alla responsabilità intergenerazionale

Cultura - di Gian Piero Joime - 25 Maggio 2025 alle 08:00

Scrivo queste brevi riflessioni a seguito della mia partecipazione, su invito dell’onorevole Nicola Procaccini e di Maicol Pizzocotti Busilacchi,  al recente “Think Tank Central – Freedom in a Changing World” di Bruxelles, organizzato dalla Fondazione New Direction. E le scrivo anche grazie al vivace dibattito del panel, “World Stewardship of the Natural World”, con la precisa volontà di ribadire il valore del conservatorismo per la cultura e la pratica ecologica.

Le radici profonde dell’ambientalismo conservatore

Dal mio punto di vista, la cultura ecologica, e quindi la tutela dell’ambiente, affondano le loro radici proprio nel pensiero conservatore. I concetti ecologici di identità (“L’ambientalismo dovrebbe partire dall’amore per il luogo a cui apparteniamo: un sentimento locale, non un’ideologia globale” — R. Scruton), di responsabilità intergenerazionale (“La società è un contratto non solo tra chi vive, ma anche tra i morti e quelli che devono ancora nascere” — E. Burke), di ordine naturale (“Il vero conservatore è colui che desidera conservare non solo istituzioni e valori, ma anche paesaggi, culture locali e bellezze naturali” — R. Scruton), e di rispetto per ciò che è stato tramandato (“La terra è qualcosa che ereditiamo dai nostri padri e che dobbiamo restituire, migliorata, ai nostri figli” — W. Berry), sono da sempre fortemente, e direi intimamente, presenti nella cultura del conservatorismo.

Roger Scruton e l’equilibrio tra casa, cultura e paesaggio

La cultura eco-conservatrice è fondata, come chiaramente delineato da Roger Scruton, sulla ricerca dell’equilibrio tra la tutela della cultura locale (“I problemi ambientali sono spesso locali, e così dovrebbero essere le soluzioni”), la salvaguardia ambientale (“Chi ama la sua casa, il suo paesaggio, il suo quartiere, non lo devasta”), e la difesa del patrimonio culturale ed economico (“La soluzione ai problemi ambientali non verrà da governi mondiali o da trattati astratti, ma da cittadini che amano i luoghi in cui vivono… La responsabilità ecologica nasce dal senso del dovere, non da leggi imposte”). Una linea di pensiero chiaramente distante dalle posizioni del tecnocentrismo — basato su un’illimitata fiducia nella tecnologia — dagli eccessi delle eco-burocrazie, soprattutto europee, e dall’ecofanatismo ideologico, fondato su un atavico senso di colpa e sui principi della decrescita. L’attitudine dell’eco-conservatorismo è semplicemente pragmatica, non ideologica: istintivamente tesa tanto alla tutela ambientale quanto alla prosperità economica.

Sviluppo sostenibile: tre pilastri, un equilibrio

Dati questi presupposti, si può facilmente osservare come la cultura eco-conservatrice sia pienamente coerente con il modello teorico. La teoria dello sviluppo sostenibile è infatti composta, com’è noto, da tre dimensioni fondamentali e inscindibili: la sostenibilità ambientale, intesa come capacità di mantenere nel tempo qualità e riproducibilità delle risorse naturali e, dunque, di conservarle; la sostenibilità economica, come capacità di generare in modo duraturo reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione e quindi di salvaguardare il patrimonio economico; infine, la sostenibilità sociale, come capacità di garantire condizioni di benessere umano e accesso alle opportunità, in particolare per le comunità attuali e future.

Le tre direttrici sono ben delineate sin dal 1987 — anno considerato da molti la data di nascita ufficiale della politica per lo sviluppo sostenibile — quando la Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo licenziò il documento noto come Rapporto Brundtland, dal nome della coordinatrice Gro Harlem Brundtland, allora presidente. In esso, lo sviluppo sostenibile viene definito nella sua triplice dimensione: «Affinché lo sviluppo sia sostenibile, deve bilanciare con successo gli obiettivi economici con quelli sociali e ambientali», e nella sua portata temporale: «uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». In queste affermazioni — costitutive dell’attuale pensiero politico sulla sostenibilità — riecheggia la citata frase di E. Burke: “La società è un contratto non solo tra chi vive, ma anche tra i morti e quelli che devono ancora nascere”.

Ambiente come realtà integrata, non astratta

Nell’ambito teorico dello sviluppo sostenibile, il termine “ambiente” fa correttamente riferimento a una nozione multidimensionale e relativa, che rimanda contemporaneamente a “ciò che circonda” e a “ciò che è circondato”: ovvero la biosfera e i suoi equilibri, il paesaggio, le piante, gli animali, gli esseri umani. Una definizione ben recepita anche nella nostra giurisprudenza: “il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo, protette dall’ordinamento [giuridico] perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. Ovvero che l’ambiente è una nozione, oltre che unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali”. Questa concezione supera la dicotomia tra natura e contesto economico-sociale, includendo nel concetto stesso di “ambiente” sia l’opera umana sia il contesto naturale, tanto il campo coltivato quanto la foresta.

La Costituzione italiana tutela anche il futuro

Un approccio ribadito anche dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 — recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente” — pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del febbraio 2022. In particolare, l’articolo 9 è stato integrato con il seguente comma: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Il conservatorismo è già dentro lo sviluppo sostenibile

Di conseguenza, il pensiero conservatore si allinea strettamente al nucleo dottrinale dello sviluppo sostenibile. Al contrario, come si discuterà nelle sezioni successive, le politiche di sostenibilità contemporanee — in particolare nel contesto europeo — hanno spesso sbilanciato eccessivamente l’attenzione verso la dimensione ambientale, a scapito di quelle economiche e sociali, altrettanto cruciali.

Dal bilanciamento all’ideologia: la deriva europea

Negli ultimi anni, nell’ambito della cosiddetta era della transizione ecologica, è diventato sempre più evidente come i presupposti teorici originari — basati sul necessario equilibrio tra esigenze ambientali, economiche e sociali — abbiano progressivamente lasciato spazio, in particolare in Europa, a una fase fortemente sbilanciata. Questa fase è caratterizzata da un orientamento marcatamente iper-ambientalista, evidente in numerose direttive e regolamenti derivanti dal Green Deal europeo, che adottano spesso un approccio top-down — come dimostrano le politiche sui veicoli elettrici e sulla biodiversità — e mostrano una considerazione insufficiente per le ripercussioni economiche e sociali su imprese, famiglie e comunità locali.

Transizione ecologica: opportunità o minaccia?

La transizione ecologica, pur rappresentando indubbiamente un’opportunità per costruire un nuovo paradigma di sviluppo sostenibile, comporta al contempo rischi significativi per quelle imprese e quei territori che non riescono ad adattarsi a una trasformazione tanto ampia quanto spesso troppo rapida. È fondamentale riconoscere che la questione ambientale è oggi legata a quella del potere industriale globale e che è in atto una competizione economica internazionale per assicurarsi la leadership nella transizione ecologica. Si tratta, in sostanza, di una lotta per il controllo delle posizioni strategiche su ogni fonte energetica e lungo intere catene di produzione.

Esiste dunque un rischio concreto di assistere a un ampio processo di sostituzione ecologica e, di conseguenza, a un generale indebolimento della sfera economica e sociale di interi territori: una paradossale conseguenza insostenibile, causata proprio da un’azione politica che si propone come sostenibile.

Il peso insostenibile della decarbonizzazione forzata

L’accelerazione dei processi di decarbonizzazione — finalizzata al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 e al posizionamento dell’Europa come primo continente climate-neutral — introduce complessità sistemiche in tutti gli ambiti dell’organizzazione sociale degli Stati membri dell’Ue Tali sfide risultano particolarmente critiche per il sistema industriale europeo, composto in larga parte da reti e distretti di piccole e medie imprese di origine artigianale, fortemente radicate in modelli produttivi e contesti culturali locali e tradizionali. Queste realtà potrebbero incontrare profonde difficoltà nell’adeguarsi ai nuovi standard della sostenibilità ambientale.

Raggiungere la neutralità climatica richiede una radicale riconfigurazione del modello di crescita, con impatti economici e sociali di vasta portata sulla competitività industriale, sull’occupazione, sulle competenze e sullo sviluppo sostenibile di intere aree fondate su processi e prodotti tradizionali. È quanto si osserva, ad esempio, nel settore automobilistico dell’Europa occidentale, dove il controllo delle tecnologie sostenibili e dei modelli produttivi legati alla mobilità elettrica assume un’importanza strategica crescente.

Quando l’ideologia rallenta l’industria: il caso Cina

In questo scenario geopolitico ed economico — che si configura come una contesa per il predominio industriale lungo le catene del valore dell’eco-innovazione — la Cina si è affermata come potenza industriale dominante, in particolare nei settori del fotovoltaico e della produzione di veicoli elettrici. Mentre gli euroburocrati di Bruxelles si impegnavano in dibattiti teorici sulle sfumature di “verde”, la Cina e altri concorrenti globali hanno compiuto significativi progressi industriali. Nel 2022, la Cina ha installato quasi la metà dei pannelli solari a livello mondiale, diventando il primo produttore di energia solare, con circa il 40% della capacità globale; i veicoli elettrici prodotti nella Repubblica popolare cinese hanno rappresentato circa il 53% della produzione globale totale.

Direttive sbilanciate e competitività europea a rischio

Fin troppo spesso, le politiche promosse nell’ambito del Green Deal europeo hanno mostrato un’impostazione iper-ambientalista che risulta insostenibile tanto per le imprese quanto per i territori. Non sono coerenti con la dottrina fondativa dello sviluppo sostenibile. Si considerino, ad esempio, le conseguenze della direttiva europea sui veicoli elettrici — che prevede, a partire dal 2035, l’immissione sul mercato dei soli veicoli a zero emissioni di CO₂ — in termini di impatti dirompenti sui settori automobilistici europei, sull’occupazione e sulle prospettive di sviluppo di intere regioni. Una scelta eccessivamente sbilanciata sulle preoccupazioni ambientali, che, in nome della lotta al cambiamento climatico, rischia di diventare economicamente e socialmente insostenibile.

E non si tratta dell’unico paradosso: si pensi anche alla direttiva “Case verdi” o alla strategia “Dal produttore al consumatore”. L’Europa, pur avendo sviluppato un articolato quadro normativo per affrontare il cambiamento climatico — sostenuto dalla sua straordinaria capacità di micro-gestione regolamentare (dal bando della plastica alla graduale eliminazione dei motori a combustione, dagli standard per l’edilizia verde alla filiera agroalimentare) — rischia ora di diventare un semplice mercato di sbocco per chi detiene le materie prime critiche e le tecnologie abilitanti della transizione verde: batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, inverter e veicoli elettrici.

Il primo segnale di svolta: il Clean Industrial Deal

Sembra dunque evidente il rischio di sostituire la dipendenza dai combustibili fossili — e dai Paesi che ne detengono le risorse — con una nuova dipendenza da tecnologie e materie prime necessarie ai sistemi clean-tech, spesso monopolizzate da un numero ristretto di attori globali. Solo recentemente, probabilmente a seguito della presa d’atto degli effetti recessivi di parte del Green Deal, si stanno registrando — con la comunicazione della Commissione europea sul “Clean industrial deal” — alcuni segnali incoraggianti di maggiore attenzione alla competitività delle imprese e dei territori europei.

Tradizioni locali sotto attacco in nome del clima

Questo scenario mette in luce un potenziale paradosso nell’attuazione concreta della teoria dello sviluppo sostenibile: il rischio che la transizione ecologica, nella sua forma attuale, finisca per sacrificare tradizioni culturali e produttive locali in nome di modelli imposti. Una conseguente perdita di capacità produttiva locale indebolisce inevitabilmente i pilastri economici e sociali della sostenibilità.

Un approccio conservatore per riorientare la transizione

I rischi evidenti di una transizione ecologica eccessivamente sbilanciata verso gli obiettivi ambientali evidenziano l’urgente necessità di ricalibrarne la direzione. Non si tratta di negare la transizione ecologica, ma di orientarne le modalità operative nel solco della dottrina originaria dello sviluppo sostenibile. È necessario procedere con un approccio conservatore alla transizione ecologica, lungo un percorso che tuteli il patrimonio culturale e industriale locale. Un approccio che attribuisca pari importanza alle dimensioni economiche, sociali e ambientali, e che miri a valorizzare la posizione competitiva degli ambiti locali all’interno dell’agenda della sostenibilità.

Standard globali, territori ignorati: il vero limite

Il principale limite dell’attuale modello di transizione ecologica, a mio avviso, risiede nella sua tendenza a imporre standard globali, mentre uno sviluppo equilibrato e realmente sostenibile può nascere solo dalle radici dell’identità locale. Un modello di questo tipo, in linea con i principi del pensiero conservatore (“I problemi ambientali sono spesso locali, e tali devono essere anche le soluzioni”), deve puntare non a sostituire tali identità, ma a rafforzarle e conservarle.

Riportare l’equilibrio: la dottrina originaria della sostenibilità

La salvaguardia dei sistemi produttivi locali e delle strutture territoriali deve essere riconosciuta come componente essenziale di qualsiasi modello di sviluppo sostenibile che voglia davvero rispondere ai bisogni concreti dei contesti in cui si applica. Questo significa riportare l’azione politica a un’interpretazione più ortodossa della dottrina dello sviluppo sostenibile, ristabilendo l’equilibrio necessario tra gli obiettivi ambientali — oggi chiaramente prevalenti nelle politiche europee — e le istanze economiche e sociali. Si tratta di rafforzare, anziché indebolire, il tessuto economico delle comunità locali, garantendo un futuro sostenibile per tutti i territori.

Un Green Deal più aderente alle radici dei popoli

È dunque necessaria una trasformazione radicale dei principi attuativi e delle modalità operative del Patto Verde, fondata su un impianto culturale e politico che dia priorità alla tutela delle capacità produttive locali e allo sviluppo del lavoro e dell’imprenditorialità nei diversi contesti territoriali. Un impianto fondato sul principio conservatore, per difendere e rafforzare le radici locali tradizionali anziché sostituirle con modelli esogeni — anche attraverso una cultura dell’innovazione continua e dello spirito imprenditoriale locale, che è ancora ampiamente presente in tutto il continente.

Territori protagonisti: tra innovazione e tradizione

La valorizzazione delle molteplici specializzazioni regionali e nazionali, accompagnata dalla progressiva modernizzazione dei territori — attraverso biotecnologie, fonti di energia rinnovabile, efficienza energetica, mobilità elettrica ed economia circolare — può avere effetti significativi nella rivitalizzazione del dinamismo imprenditoriale locale, troppo a lungo penalizzato da approcci centralizzati e top-down.

Sostenibilità senza universalismo astratto

La grande varietà dei percorsi di sviluppo e delle caratteristiche culturali dei territori rende complessa l’elaborazione di standard universali di sostenibilità. Appare invece più realistico immaginare principi condivisi, applicabili in contesti differenti attraverso modelli attuativi adattati alle specificità locali. In linea con il pensiero di Scruton: “Le soluzioni ai problemi ambientali non verranno dai governi mondiali o da trattati astratti, ma dai cittadini che amano i luoghi in cui vivono… La responsabilità ecologica nasce dal senso del dovere, non da leggi imposte”. Così come indicato nei principi del pensiero ambientale conservatore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

di Gian Piero Joime - 25 Maggio 2025