
Miti
Chiedi alle polvere chi è stato John Fante: genio delle emozioni, penna (e vita) impetuosa
Per celebrare il mito del grande scrittore italo-americano è nato il progetto “Di padre in figlio” ideato da Stefano Angelucci Marino e Rossella Gesini del Teatro del Sangro: oltre trenta appuntamenti itineranti dal 14 al 27 luglio
Sono trascorsi quarantadue anni, dalla morte di John Fante, avvenuta a Los Angeles l’8 maggio del 1983. La vecchia casa di Point Dume, il ventoso promontorio sulla costa di Malibu, dove si era rifugiato per sfuggire a Hollywood, già da tempo era stata rasa al suolo. Il resto del lavoro lo hanno fatto le fiamme. I grandi incendi dello scorso gennaio. Oltre diecimila gli edifici inceneriti nella città degli angeli. I cimeli personali, custoditi dalla figlia Victoria, foto, dipinti, cartoline, biglietti. Tutto inghiottito dal fuoco. Perso per sempre. Manoscritti originali, contratti editoriali, parte della sua corrispondenza, la sua macchina da scrivere, al sicuro nell’archivio dell’UCLA, si sono salvati.
Fantemania
Eppure, il grande scrittore italoamericano risorge sempre dalle ceneri. Lo ha fatto in vita, dopo che la critica di sinistra, intenta a esaltare la narrativa proletaria nata dalla Depressione, si era affrettata a seppellirlo. Lo ha fatto quando il diabete gli ha portato via le gambe e reso cieco. Continua a farlo anche ora che tutti sono pazzi per lui. La “fantemania” è un fenomeno inarrestabile che si rinnova anno dopo anno. Ne sanno qualcosa a Torricella Peligna, centro montano in provincia di Chieti che conta poco più di mille abitanti. D’estate diventano diverse migliaia. Grazie al John Fante Festival, che questa estate celebrerà la sua ventesima edizione. Un vero e proprio pellegrinaggio per scoprire dove tutto ebbe inizio. Un’iniziativa che ha rinsaldato il legame tra gli italiani di seconda e terza generazione e il paese d’origine dei loro parenti.
Il padre Nick era partito proprio da lì per sbarcare a New York agli albori del Novecento in cerca di fortuna. «Muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar – lo ha descritto il figlio – un mussoliniano, ma grandemente democratico e insaziabilmente americano». È nel solco tracciato dal padre che Arturo Bandini, spericolata controfigura dello stesso John Fante, per scrivere si trasferisce dal Colorado in California dando vita a una strepitosa saga familiare.
Per sempre un “dago”
Pur essendo nato negli USA, esattamente a Denver nel 1909, per i critici americani rimaneva un “dago”, la spregiativa espressione con la quale vengono definiti agli oriundi italiani, il cui milieu anima l’intera opera fantiana. Troppo cattolico, per i loro gusti. Fante se ne lamentava con il suo mentore, Henry Louis Mencken: «Non c’è proprio ragione per cui un fottuto dannato agente marxista, che si suppone tratti di opere letterarie e non di propaganda, dovrebbe rifiutare i mei racconti perché ironicamente filocattolici…».
Fante non è mai stato accondiscendente con la grande macchina editoriale. Non ha speso parole per rassicurare gli intervistatori con opinioni politicamente corrette. Non ha strizzato l’occhio ai critici. «I rossi dallo sguardo allucinato», li chiamava. Mai accomodante, sempre sopra le righe, impetuoso, scostante, eccessivo, irridente e collerico, John Fante è stato fuoco vivo.
«Fante è terribilmente maschile – ha spiegato tempo fa lo scrittore Marco Vichi, fantiano doc – nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente ghirigori psicologici, niente spiegazioni troppo spiegate o riflessioni compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni, né vergogna di rivelarsi e di rivelare agli altri. Fante non si nasconde, non c’è bisogno di andarlo a cercare dietro le parole: lui è lì, aperto come fosse stato sbudellato, sfrontato e rabbioso, buono e cattivo in modo violentemente umano».
Anticomunista nell’anima
Le dichiarazioni di Fante, rilette oggi, fanno sembrare Michele Morrone una specie di chierichetto. «Che me ne importa del comunismo? – tuonava Fante – Mi farò mettere contro il muro e sparare prima di sottoscrivere il marxismo da salotto di uno stupido gruppo di laureati di Harvard. Oggi, ogni bohémien, lesbica o finocchio, è comunista. Mi danno la nausea! E dovranno farmi a pezzi prima di impedirmi di pubblicare. Simpatizzano con le masse. Questa è una bugia. Usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita. Sono comunisti perché il comunismo in questo Paese paga».
L’insuccesso, il matrimonio e il vizio del gioco lo costrinsero a misurarsi con lo spettro della precarietà economica. Fu così che il giovane Fante, rinviato l’appuntamento con la fama mondiale, finì col cimentarsi nella più redditizia attività di sceneggiatore. E no. Non venne accolto a braccia aperte, dall’ambiente cinematografico. La moglie, la poetessa Joyce Smart, spiegò che «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra» e che questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente fortemente politicizzato che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato.
Gavetta e vita vissuta
La gavetta fu dura. Negli anni Cinquanta arrivarono le prime gratificazioni: le collaborazioni con Billy Wilder, Alfred Hitchock a altri grandi registi, i viaggi all’estero e una certa agiatezza. Quando, tra il ’57 e il ’60, Fante viene in Italia per lavorare, esplode nel constatare che «ci sono sei milioni di comunisti in Italia, l’intera industria del cinema è dell’intellighenzia rossa del tipo che prevaleva ad Hollywood. Si identificano facilmente perché danno voce a cliché antiamericani. Il lavoro va a loro e mantengono le cose come stanno». Un quadretto poco edificante e per certi versi ancora attuale.
Bukowski, che contribuì in maniera determinante a rilanciarlo, anche se il vero successo arrivò solo dopo la morte di Fante, disse: «Finire ad Hollywood a scrivere sceneggiature, ecco cosa l’ha ucciso». Elio Vittorini, molti anni prima, aveva provato a cucirgli addosso l’immagine di scrittore sociale. Pubblicando nell’antologia Americana (Mondadori 1941) Una famiglia neoamericana, brano di Fante estratto dal primo capitolo di Aspetta primavera Bandini, lo aveva maldestramente presentato come icona dell’immigrato di seconda generazione. Una specie di cantore delle masse dei diseredati.
La riscoperta e il festival nel “suo” Abruzzo
Lo riscoprirà Pier Vittorio Tondelli per quello che veramente era: un genio della narrazione, uno scrittore di emozioni e sentimenti. Sarà la gioventù post ideologica degli anni Ottanta a riconoscersi nei suoi personaggi. Con l’ingresso trionfale nei Meridiani Mondadori, in occasione del ventesimo anniversario della morte (maggio 2003), arriva la consacrazione tra i classici e diventa oggetto di tesi da parte di centinaia di studenti.
Come tutti i miti, John Fante dispone di una entusiasta quanto trasversale pattuglia di fans, i fantiani, per i quali quanto fatto non è mai abbastanza. Dalla voglia di regalare ad altri le emozioni che hanno provato loro, è nato il progetto “Di padre in figlio” ideato da Stefano Angelucci Marino e Rossella Gesini del Teatro del Sangro, vincitore del bando Progetti speciali per il teatro 2025 del ministero della Cultura. Un ricco cartellone itinerante in sette comuni abruzzesi e uno laziale (L’Aquila, Lanciano, Vasto, Torricella Peligna, Atessa, Casalbordino, Treglio e Marino), con oltre trenta appuntamenti, dal 14 al 27 luglio, tra spettacoli teatrali, incontri, presentazioni, convegni, proiezioni, eventi per promuovere la cultura teatrale-artistica nella scuola e nel sociale, campus formativi, con al centro John Fante e suo figlio Dan, scrittore anche lui, morto a Los Angeles dieci anni fa e grande amico dell’Abruzzo.
Corsi e ricorsi storici: nella tradizione di casa Fante il rapporto tra le diverse generazioni è sempre stato viscerale, di odio e amore. «Era un vero bastardo, sempre incazzato per una cosa o l’altra – così Dan ha descritto il padre – e amarlo non era stata una cosa semplice per nessuno. Disponeva della terribile capacità di scoprire il punto debole di una persona e poi, in un momento di vulnerabilità, colpirla con un’accetta». Il che non gli impediva certo di amarlo, come noi amiamo loro.