
Il libro
Vecchi e giovani, la sfida del poeta e grecista Andrea Simi, sulle orme dei versi immortali di Mimnermo
I giovani sono tutti uguali, ovunque e in ogni tempo, mentre la vecchiaia è diversa per ciascuno. Questo incipit è una smaccata parafrasi del celeberrimo di Anna Karenina (“tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”). Ho scritto altrove (La dannazione dell’incipit in “attualità Lacaniana, n. 33, 2023) che quella asserzione è soltanto una verità letteraria, non una verità oggettiva, assoluta. Se il grande scrittore di Jasnaja Poljana avesse affermato il contrario, l’effetto sarebbe stato identico: i lettori l’avrebbero riconosciuta come la propria verità. E’ il potere ”ipnotico” della letteratura. L’assunto vale anche naturalmente per la mia variante, ma vorrei provare a dimostrare, avvalendomi proprio del piccolo, suggestivo, prezioso per tanti versi, libro appena pubblicato da Andrea Simi “Mimnermo e la perduta estate” (edito da Palombi), che essa ha qualche chance in più di resistere a un ribaltamento di senso. Soprattutto la seconda parte dell’assioma, quella che riguarda la vecchiaia. Perché è l’età in cui si è costretti inevitabilmente a pensare alla fine. Alla morte. Mi accorgo di non avere scritto subito la parola “Morte”. In effetti essa, sia la parola sia ciò che esprime, è diventata da parecchio tempo a questa parte, un tabù.
Il paradosso è che quotidianamente i mezzi di informazione ci forniscono il resoconto di migliaia di morti, per incidenti, calamità, guerre. Ma c’è una differenza essenziale: quei morti, che siano lavoratori caduti da un’impalcatura o pedoni falciati in strada o contadini sommersi da un’inondazione o soldati e civili ucraini, russi, palestinesi, israeliani, siriani e così via, sono corpi, la loro scomparsa violenta non ha nulla di misterioso, attiene alla realtà fisica. Fa parte in qualche modo della vita, anzi ne è la condizione insostituibile di permanenza nel tempo. Senza le centinaia, migliaia, di morti quotidiani, la vita non potrebbe continuare a esistere. La “Morte”, invece, attiene a una sfera per così dire metafisica. Solleva una quantità di questioni inquietanti, irrisolvibili peraltro, che vanno al di là del rapporto inizio-fine del ciclo vitale. E’ il mistero della morte, la sua ineluttabilità “livellatrice” che finisce per rendere privo di senso, nel lungo periodo, ogni sforzo teso a superare gli altri, a distinguersi.
Il famoso monologo di Amleto con in mano il teschio di Yorick, il buffone di corte che “hat borne me on his back a thousend times” (tante volte mi ha portato in spalla), introduce la dimensione dell’assurdità dell’esistenza. Ed è questa dimensione a essere stata rimossa. O, meglio, lasciata alle considerazioni e meditazioni di filosofi, teologi, mistici, poeti. Come è appunto il caso di Simi, il quale, proseguendo una sua personale immersione nel privato, con estrema discrezione, con quell’understatement che caratterizza il suo stile di uomo e di scrittore, affronta il tema indirettamente, utilizzando una sorta di avatar: un grande poeta arcaico, del quale sono rimasti purtroppo pochi frammenti, quasi tutti dedicati alla géras e a tanatos, la vecchiaia e la morte.
Vi è un altro paradosso da evidenziare e cioè che sono i giovani a essere i più spaventati, a volte addirittura terrorizzati, dal pensiero della morte. Se ne comprende facilmente la ragione, temono di più, perché hanno di più da perdere: il loro futuro. Come la paura dei ladri che attanaglia chi possiede un tesoro in casa. Sarebbe una paura superabile, entro certi limiti, proteggendo la propria incolumità, con attenzione, prudenza, cautela, circospezione. Tutti atteggiamenti ignoti peraltro a Ebe, la balda giovinezza… Gli anziani, i grandi anziani soprattutto (l’allungamento delle prospettive di sopravvivenza, per lo meno nelle società cosiddette “affluenti”, ha comportato la necessità di una categoria aggiuntiva…) non hanno invece strumenti protettivi. E ognuno affronta l’imminente arrivo della Grande Falciatrice in modo assolutamente personale, in quanto determinato da una somma di condizioni: il carattere, il vissuto, la cultura, la fede o la mancanza di fede, la condizione sociale, quella economica, quella familiare. Ecco perché, a mio parere, il rapporto con la vecchiaia e con la Morte è diverso da individuo a individuo. Nel caso dei giovani quelle stesse condizioni hanno un peso minore. Prevale l’energia vitale, la capacità di stupore di fronte alla vita: “per poco tempo dei fiori di gioventù godiamo, e dagli dei non sappiamo né il bene né il male “ (così Mimnermo nella elegante versione di Simi).
Simi ha già scritto dei raffinatissimi libri nei quali gioca su varie sponde. La sua passione per il greco antico e gli autori classici, nonché quella per la vela che lo ha portato, negli anni, a frequentare i luoghi in cui vissero i suoi amati poeti, è alla base dei primi due: ”Sui sentieri pescosi – I viaggi per mare nell’Odissea” (edito da Logart press nel 1998) e “Andres – Tre poeti maschi” (Vallecchi, 2007). Aggiunta a quelle, la competenza in fatto di vini, è il solido presupposto (anche se può sembrare un ossimoro, trattandosi di un liquido…) di “Mare diVino” (pubblicato nel 2020 da Curcio).
Ma Simi, grecista, traduttore, velista, enofilo (nonché, en passant, ottimo giurista), è essenzialmente un poeta. Lo è nel modo di tradurre, operazione che compie con lo stesso spirito con cui si poneva il più grande fra coloro che si sono cimentati con i lirici greci (Quasimodo, ça va sans dire).
Il quale non si azzardava a imitare il modo degli antichi poeti, nel vano tentativo di trovare l’equivalente linguistico, ma si sforzava di renderne l’interna musicalità e il senso con forme semplicemente analoghe. E, soprattutto, congeniali alla sua poetica personale. Ciò condizionava anche la scelta dei poeti da tradurre (evitando i grandi “virtuosi” per esempio, come Pindaro). Simi si muove sulla stessa lunghezza d’onda, privilegiando gli autori nei quali ritrova il suo “mondo di visione”, con i quali intreccia un dialogo a distanza. E la sua poesia ha la stessa armonia e capacità evocativa dei suoi amati “antichi”.
Quando ha deciso di esporsi in prima persona lo ha fatto con la consueta discrezione, addirittura con un pizzico di esagerazione nel volere a tutti i costi tenere un profilo basso. Nel 2012 ha pubblicato infatti una raccolta di poesie (“Adespota”, edita, con una intensa prefazione di Predrag Matvejevic, da Vallecchi) anonima o, meglio, a doppia firma, con un amico e sodale, senza l’indicazione però di quali componimenti appartengano all’uno e quali all’altro. E questo, per naturale pudore, non per gioco. O non solo… Simi è infatti rigoroso, ma sa anche concedersi delle libertà quasi da goliarda. Un volumetto fuori commercio, Versi d’occasione (Logart Press, 2016), firmato “Cavallo”, il suo pseudonimo di battaglia… (come – bravo – canottiere), evidenzia il suo lato gioioso, aprendo peraltro anche ampi squarci nel suo privato. Il suo modo di essere poeta ha bisogno, una necessità strutturale, se si può dire così, di un interlocutore.
Anche nelle sue composizioni più meditative, più introspettive, vi è sempre “l’altro”, qualcuno al quale o per il quale dire certe cose, e dirle in un certo modo. Simi ha espresso pienamente questa sua vocazione al rapporto, al colloquio, con l’iniziativa presa durante il Covid di recitare dei versi altrui, preceduti da brevi, ma puntuali commenti, facendosi filmare dalla sua Elisabetta per poi metterli in rete. E’ stato un successo, sia per la qualità dei testi scelti, sia per l’acutezza delle introduzioni, sia per le sue doti di fine dicitore, sobrio, efficace, per nulla retorico. Ha poi raccolto il tutto in un volume corredato da glifi che consentono ai lettori di rivedere i filmati, pubblicato da Graus nel 2022 col titolo “Quella piccola tenda di azzurro” (un verso della “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde).
Del tutto diverso quest’ultimo libro su Mimnermo. Che è anche una sfida. Pochi frammenti, poche notizie, e allora costruisce una trama plausibile, non per i dati concreti, bensì per il tessuto emotivo che sa ricucire con gli scarsi fili di cui dispone, mantenendo un atteggiamento umile, ma al tempo stesso consapevole della ragione stessa dell’operazione tentata: occasione, scusa, per affrontare il tema-tabù. Che riguarda il Simi uomo, non ancora grande anziano e neppure anziano, ma in… anticamera: “fingo di trovare risposte alle angosciose domande che si affollano in quei territori della mente che nessun altro può vedere. Ma è un precario rifugio.”
Mimnermo è il poeta che ha definito la vecchiaia “penosa”, “triste”, (così Simi rende rispettivamente gli originali greci “odyneron”, “argaleon”,), ben diversa dalla morte eroica dei guerrieri caduti in battaglia, cantata nell’Iliade, di cui Achille è l’archetipo, ma che lo stesso Omero (ammesso che sia sempre lui l’autore dell’Odissea) ripudia nel secondo poema, quando Odisseo scende nell’Ade e il morto Achille, non più eroe trionfante, ma ombra fra le ombre, gli confessa tutta la disperazione di chi non è: “Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Preferirei, da bracciante, servire un altro uomo, un uomo senza podere, che non ha molta roba, piuttosto che dominare tutti i defunti.”
Il poeta si spinge anche oltre: definendo la vecchiaia “amorfon”, che Simi traduce con “turpe”, introduce una nota di disperazione, che sarà poi amplificata da un D’Annunzio in disfacimento (descritto impietosamente da quella Tamara de Lempicka che, rara avis, rifiutò inorridita le sue avances) con la sua “turpe vecchiezza”. Smentendo così la boutade di Oscar Wilde, poi riproposta da Hill (l’autore di Risvegli), che la tragedia della vecchiaia è che ci si sente giovani. No, la tragedia della vecchiaia è che la si avverte in ogni fibra e, soprattutto, nella propria mente. Per lo più la “geras” di Mimnermo (Geras era il dio della vecchiaia), e così la vecchiaia cui si riferisce Simi, non è oberata di rimpianti, ma di rammarico per non poter godere appieno ciò che la vita ancora gli offre. Un sentimento non astioso, dolce invece, pieno di nostalgia. E’ lo stesso che si ritroverà, quasi tremila anni dopo, per esempio nei versi di Rückert: Ich bin von Welt abhanden gekommen (io mi sono distaccato dal mondo), intrisi di una struggente malinconia, che il sommo Gustav Mahler ha tradotto musicalmente in modo inimitabile, rendendoli immortali.
E’ un libro molto intimo, questo di Simi, e lo schermo costituito dalla storia imbastita sui frammenti di Mimnermo non è una barriera difensiva sufficiente. Del resto lo stesso autore, nell’epilogo, si toglie la, peraltro trasparente, maschera.
La traduzione dei versi, sempre attenta a mantenere il giusto equilibrio fra il rispetto dell’originale e l’inevitabile adattamento a un linguaggio e a una temperie diversi, è il valore aggiunto del volume. Ma essi costituiscono soltanto la sottotraccia su cui Simi elabora la sua personale meditazione sul tema della Morte. Con straordinaria abilità dispone i versi del poeta di Smirne in modo da costruire un percorso che si sviluppa nel tempo – non molto, in realtà: Mimnermo è già avanti negli anni, anche se ancora vigoroso, quando incontra la bellissima etera Nannò – con tale naturalezza da rendere assolutamente credibile la cronologia del tutto “inventata”, come ammette lo stesso Simi: “Ho tradotto tutti i frammenti di una certa consistenza che sono rimasti della sua opera e ho cercato di cucirli fra loro, come le romanze e i cori dei melodrammi sono tenuti insieme dal recitativo. Così ha preso corpo una storia non necessariamente vera, ma possibile”.
Bellezza di versi senza tempo
Il lettore, ammaliato sia dalla bellezza dei versi, sia dalla convincente “narrazione” che li accompagna, viene quasi risucchiato da una vicenda che riguarda due personaggi dell’antichità più remota (Mimnermo è del VII secolo a.C.), che grazie all’appropriazione (non indebita…) del poeta-Simi, diventa però di un’attualità sorprendente. E se l’autore, nella parte finale del suo bellissimo libro (che non saprei come catalogare: non è un romanzo in senso stretto, né una traduzione commentata, né un’opera poetica autonoma, ma un felice ibrido…) non esita a dedicarlo, in un certo senso, alla sua Nannò: “la mia ancora bella e amatissima Nannò, che non ha mai suonato il flauto, ma ha scoperto in età avanzata il piacere della letteratura, dopo avermi dato due figli e, questi, tre nipoti“, potremmo arrivare a credere che un poeta greco di nome Mimnermo non sia mai esistito e che quello usato da Simi sia l’ennesimo travestimento dell’antico espediente del manoscritto ritrovato (dal Don Chisciotte di Cervantes a Ivanhoe di Walter Scott ai Promessi sposi del nostro Manzoni fino al Manoscritto ritrovato a Saragozza di Potocki, per citarne alcuni). Tanto la sua sovrapposizione è garbata, lieve, per nulla prepotente: “una operazione assolutamente arbitraria, ne convengo, ma suggerita dal cuore, dalla mia vicinanza, dopo ventisette secoli al primo cantore della stagione, breve come un sogno, della gioventù preziosa, della nostalgia per il tempo della inconsapevolezza e della ybris.”
E il sospetto acquista maggiore consistenza dato che Simi conclude la ricostruzione del manoscritto (da lui… ritrovato) con propri versi che non hanno nulla da invidiare a quelli del presunto Mimnermo:
Prima che sia sporco il cielo/del nero fumo dei camini/e l’inverno ritorni a impigliarsi/fra le file di case e fra le antenne
Prima che la noia/ci prenda nel suo lungo giro/vuoto annaspare del giorno/e la luce diriga a occidente
Per alberi spogli/per deserti viali/come fumo fra i tetti scivolante/me ne andrò, lasciando/te sola, morto pegno/della perduta estate/in questa terra brulla.