Il giallo dei fidanzatini di Cori nel romanzo di Antonio Pennacchi: una sciarada inestricabile

28 Dic 2018 19:06 - di Annalisa Terranova

Ci voleva uno scrittore come Antonio Pennacchi, premio Strega con il romanzo Canale Mussolini, per far diventare una brutta storia di cronaca nera un romanzo di successo 20 anni dopo che l’omicidio era stato compiuto. Ma non solo: ci voleva il suo stile particolarissimo – colloquiale e colto allo stesso tempo – per trasformare quella vicenda sanguinosa in un romanzo a tratti ironico, a tratti emblema delle passioni inconfessabili che si annidano nella provincia italiana, a tratti narrazione storica  sulle popolazioni dei monti Lepini, a tratti racconto psicologico. Una sciarada inestricabile. E per di più con un finale a sorpresa, del tutto inaspettato.

Un delitto realmente avvenuto

Il delitto nel romanzo avviene ad Agora, “un paesaccio che sta sulla montagna”, non distante da Roma e soprattutto vicino a Latina, città dove Pennacchi risiede. Pennacchi cambia i nomi di tutti protagonisti, a partire dalle vittime, ma il suo romanzo parte da un omicidio efferato realmente avvenuto, nel marzo del 1997, a Cori: vittime di una incontrollata e feroce furia omicidia furono i fidanzati Patrizio Bovi, 23 anni, e Elisa Marafini, 17 anni. Uccisi con un numero impressionante di coltellate: lui 60, lei 124. Il paese è in subbuglio, tutta la zona lo è. L’eco del crimine commesso è enorme. Pennacchi prende questa storia, da cui inizialmente si sente respinto, e la trasfigura. Per la giustizia c’è anche un colpevole, ma per Pennacchi la verità è tutta ancora da ricercare, in questa come in altre storie. perché lui parte dai dubbi e non dalle certezze, e si affida ai ragionamenti filosofici sull’inconoscibilità del reale. Ed ecco che nel suo Il delitto di Agora. Una nuovola rossa  (Mondadori, pp. 214, euro 18) l’uccisione dei due fidanzati diventa metafora di quanto tutto sia relativo, di quanto ogni nostra convinzione sia frutto di un punto di vista che può essere ribaltato, di quanto pregiudizi e vox populi divengano uniti insieme una miscela esplosiva pronta a mettere in croce uno che magari è innocente e a coprire il vero colpevole. Nei libri gialli, dice Pennacchi, sono tutti sicuri: c’è il buono e c’è il cattivo, il bianco è bianco, il nero è nero. E invece no, la ricostruzione dei fatti è sempre approssimativa, sempre piena di ombre, di incongruenze. Come nella storia: “Ognuno la racconta come gli pare. Tacito dice che Nerone è un porco. E tutti a credergli. Per migliaia d’anni. Ma vai a vedere per davvero la storia com’è andata… ma non è prorio il mio mestiere. Io non sono capace. Per me Nerone è stato un santo”.

Non è un romanzo-verità che rifà il processo

Ma attenzione: questo non è un romanzo innocentista o colpevolista, un libro scritto per ribaltare le tesi accusatorie che hanno portato a una condanna, un libro che rifà il processo. No, è un romanzo che si apre e si chiude con un’affermazione banale e allo stesso tempo terribile. Tutti possiamo diventare assassini, tutti siamo “bombe potenziali di inaudita violenza”, tutti, anche senza un movente, possiamo diventare preda della “nuvola rossa”, il raptus, l’oscuramento della ragione. Per questo forse le storie noir ci attraggono e ci inquietano, per questo trovare il colpevole in un romanzo giallo è rassicurante e consolatorio. In fondo, scaricata sul colpevole ogni nefandezza, ci mettiamo al riparo da noi stessi, sentiamo di avere domato la “nuvola rossa”. E’ questo che vuole raccontare Antonio Pennacchi in questo romanzo, senza dimenticare la pietas per due giovani anime “che hanno spiccato il volo”, che prima salutavano tutti nel bar del paese e poi finivano così, trascinate in un’inspiegabile carneficina.

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