Adinolfi: “Sulla strage del 2 agosto è stata innalzata una falsa bandiera”

28 Nov 2018 18:47 - di Massimiliano Mazzanti

Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Con l’odierna audizione di Gabriele Adinolfi, fondatore e leader di Terza posizione, da un punto di vista meramente processuale, si potrebbe dire che è definitivamente crollata la credibilità di Mauro Ansaldi, il “pentito” che era stato chiamato a “illustrare” alcune vicende torinesi, per altre successive alla Strage di Bologna. Inevitabilmente, l’esame del teste è scivolato su tutta una serie di argomenti di contorno che, a un certo punto, sono stati anche oggetto di una breve polemica tra gli attori del dibattimento- Adinolfi era stato, appunto, convocato solo per confermare o smentire le dichiarazioni di Ansaldi -, ma che hanno contribuito a ricostruire il clima e l’epoca che vide nascere a Roma lo ‘spontaneismo armato’. Secondo Adinolfi, fu un fenomeno indotto dall’esasperazione in cui erano stati gettati i ragazzi di destra, nella Capitale e non solo, stretti tra la repressione dello Stato e la criminale azione violenta delle organizzazioni comuniste; una reazione scellerata, però, non solo per le modalità terroristiche in cui si esprimeva, ma, specialmente, per il fatto di esporsi alla strumentalizzazione e alla eterodirezione da parte di poteri più o meno occulti, sfuggendo a qualsiasi logica gerarchica e di controllo. I Nar, insomma, secondo Adinolfi, avrebbero ottenuto il risultato opposto a quello perseguito, nella loro folle corsa. Anche se – l’ex-leader di Terza posizione ha voluto sottolinearlo più volte – lui non ha mai creduto – anzi, si è detto sicuro del contrario – che persone come Paolo Signorelli, ma anche Valerio Fioravanti o Gilberto Cavallini, fossero “strumenti” dei servizi segreti o in qualche modo collegati a settori oscuri delle forze dell’ordine. Il suo è stato ed era un ragionamento squisitamente politico: un’azione incontrollata diventa variamente interpretabile e può fornire la stoffa per tessere quella <falsa bandiera> che, a suo dire, sarebbe stata innalzata sulla strage di Bologna per affibbiarne la paternità al mondo neofascista. Richiesto più volte dei suoi eventuali rapporti con l’imputato, Adinolfi ha ricordato di aver sì conosciuto e parlato con Cavallini, durante la comune latitanza a Parigi, ma solo nel 1983, non avendolo mai conosciuto prima. Inoltre, pur avendo marcato le differenze esistenti tra i militanti di Terza posizione e quelli che scelsero la via dello “spontaneismo”, non ha avuto difficoltà – sia in merito a Ciavardini, a Giorgio Vale o ad altri che frequentarono entrambi gli schieramenti – ad ammettere che, comunque, in quegli anni duri, la “solidarietà tra camerati” portava naturalmente a dare, se richiesti e se possibile, una mano a coloro che si trovavano in difficoltà o avessero guai con la giustizia, anche se organici ad altri gruppi. Semmai, pur avendoli conosciuti perché frequentatori dello stesso ambiente, si stava alla larga da persone come Paolo Aleandri o Sergio Calore, indicatigli, quando era ancora ragazzo, come soggetti da evitare da chi aveva maggior esperienza, come Franco Freda. Significativa, infine, la sua testimonianza sulla vicenda di “Ciccio” Mangiameli, al cui ricordo ha dimostrato d’essere ancora legato da particolare affetto: <Fioravanti lo ammazzò – ha spiegato Adinolfi, particolarmente duro con l’ex-Nar – perché, dovendo andar via dall’Italia io e Fiore e avendogli dato il compito di tenere unite le file in nostra assenza, voleva conquistare la leadership della militanza romana, portando i nostri ragazzi nello “spontaneismo armato”. E nascosero il cadavere non solo poter più agevolmente colpire Fiore e il sottoscritto, in un secondo momento, come ha pure ammesso lui stesso, ma per non perdere la faccia e l’onore di fronte a quegli stessi militanti. Ma per perderlo, l’onore, bisogna averlo>.

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