2 agosto, la moglie di Mangiameli: mio marito ucciso per un’assurda questione di soldi

26 Nov 2018 17:53 - di Massimiliano Mazzanti
Strage di Bologna

Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Nell’udienza odierna – questa settimana ne sono state programmate due -, se la Strage di Bologna non fosse oggetto di un processo atipico, in cui di tutto può sempre succedere, si potrebbe dire di aver ascoltato parole pesanti che scagionano non tanto e non solo l’imputato, ma anche i suoi presunti correi già precedentemente condannati. A sedere sul banco dei testimoni, su richiesta delle parti civili, cioè, dell’accusa, Rosaria Amico, vedova di quel Francesco Mangiameli, il cui barbaro assassinio costituisce uno dei punti meno chiari della vicenda dei Nar. L’obbiettivo di chi l’ha chiamata a testimoniare era chiaro e palese da tempo: trovare conferma – e farla ascoltare ‘dal vivo’ alla Corte – all’ipotesi che i fratelli Cristiano e Valerio Fioravanti avessero voluto uccidere Mangiameli affinché non rivelasse segreti di cui sarebbe stato a conoscenza circa la partecipazione di Giusva al delitto di Piersanti Mattarella e all’attentato del 2 agosto. Di contro, gli assassini di Mangiameli hanno sempre detto di averlo ucciso per due sostanziali ragioni: punirlo per una questione di soldi dati e non restituiti – soldi che sarebbero stati in qualche modo funzionali al progetto di evasione di Pierluigi Concutelli – e per diventare punto di riferimento dell’estremismo romano, eliminando l’ultimo concorrente ‘su piazza’ di Terza posizione. Ora, cos’ha dichiarato con certezza la Amico su queste circostanze, basando le sue parole su esperienze dirette e non già da ‘sentito dire’? In primo luogo, di aver conosciuto Fioravanti e Francesca Mambro – sotto le mentite spoglie di ‘Riccardo’ e ‘Marta’ – solo nel luglio del 1980, escludendo di averli mai visti prima, in particolare nel gennaio di quell’anno o precedentemente.

Ciò comporta che l’esame di questa teste, ritenuta fondamentale per questa parte del teorema accusatorio, non aggiunge niente al nulla che è stato in precedenza raccolto per collocare Giusva e Gilberto Cavallini a Palermo nei giorni che precedettero e, sopra a tutto, in quello che vide l’assassinio del leader democristiano. Per di più, su questo specifico punto, potrà avere un qualche interesse acquisire le parole che Giovanni Falcone disse in Commissione antimafia nel 1988 – la Presidenza del Senato ha spedito un lettera alla Corte assicurando la trasmissione del verbale – anche se, va ricordato, il processo ai due si è già svolto e risolto con una piena assoluzione. Inoltre, a proposito di Cavallini, la Amico ha ripetuto più volte di aver sentito Giusva e la Mambro – e forse anche il marito – riferirsi a un ‘Gigi’, ma, poi, su precisa richiesta, quando le è stato chiesto di ricordare le caratteristiche fisiche del ‘Gigi’, ha confermato ciò che aveva testimoniato in precedenza e, cioè, di riferirsi a un ragazzo con la carnagione scura’ e dai tratti ‘negroidi’, dando l’impressione di parlare di Giorgio Vale (che era effettivamente mulatto).

In secondo luogo, la Amico ha confermato che, giunti a Palermo e quindi a Fontana Trecase, ‘Riccardo’ e ‘Marta’, Francesco Mangiameli li lasciò là con la moglie per andare a Taranto, dove avrebbe dovuto affittare una casa proprio per i due. Si tratterebbe, appunto, del covo che sarebbe stato necessario per organizzare la fuga di Concutelli, per affittare il quale i due Nar avrebbero dato almeno le 500 mila lire per l’acconto, ma presumibilmente anche i soldi per il viaggio. Quindi, implicitamente, la Amico conferma come il progetto a cui stavano lavorando Giusva e i suoi complici fosse l’evasione di Concutelli, un progetto che mal s’accompagna con quello di compiere un attentato che avrebbe provocato, come provocò, un giro di vite durissimo contro gli eversori di destra fuori, ma anche dentro il carcere. In terzo luogo, sottolineando quanto fosse sgradita a lei, ma pare anche allo stesso Mangiameli, l’ospitalità fornita ai due ragazzi, la Amico ha raccontato come, nata una nipote il 28 agosto, lei e il marito “colsero al volo l’occasione” per dire alla Mambro e a Fioravanti come avessero necessità di tornare a Palermo, togliendoseli di torno repentinamente. Il tono e il contenuto di questa parte del racconto, però, testimonia anche come Giusva e la Mambro non avessero alcuna premura di partire, anzi, da come la Amico racconta la vicenda, sembra confermare pienamente che i due avessero in animo di fermarsi ben più a lungo, senza alcuna premura di trovarsi altrove per compiere un attentato che – questo è certo – necessita sicuramente di una programmazione precisa. Infine, la frase fin qui mai ascoltata a verbale: la Amico ha raccontato l’episodio, avvenuto durante una pausa del primo processo per la strage, quando, per pochi minuti, poté confrontarsi con la Mambro, contestandole come fosse assurdo “uccidere un uomo per 500 mila lire”. Ora, sull’entità della cifra che la Mambro e Fioravanti dettero a Mangiameli certezze non ce ne sono – 500 mila lire è la cifra di cui la Amico ha contezza, trattandosi di quella necessaria per impegnare la casa di Taranto; secondo i due ex-Nar, si tratterebbe di molti più soldi , ma si rafforza anche in questo caso il movente economico dell’omicidio. Insomma, anche l’assassinio di Mangiameli, per quanto assurdo ed efferato, avrebbe comunque caratteristiche ben meno misteriose di quel che si vorrebbe far credere. Per completezza d’informazione, prima della Amico, sono stati ascoltati ‘Ciccio’ Procopio, Dario Fignagnani e Pierluigi Scarano, dalle parole dei quali – erano ‘testi di riferimento’ della difesa – si è capito quanti errori e quante bugie fossero contenute nelle deposizioni dei due ‘pentiti’ Mauro Ansaldi e Luigi Napoli.

Commenti