Oro di Dongo: così il Pci insabbiò tutto. Se ne riparla in un libro

14 Apr 2015 22:02 - di Aldo Di Lello

Oro di Dongo: è il primo caso di malaffare e il primo inquietante mistero nella storia dell’Italia uscita dalla Resistenza. È una vicenda fatta di omicidi: innanzi quello dei  partigiani che “sapevano” dell’oscuro traffico seguito al sequestro dell’ingente quantità di preziosi, denari (e documenti riservati) sequestrata  all’autocolonna  su cui viaggiavano  Mussolini, Claretta Petacci e i gerarchi dalla formazione partigiana che arrestò il Duce a Dongo . Il Pci riuscì a insabbiare tutto. Ma il fantasma dell’Oro di Dongo non ha mai smesso di aleggiare sui vertici comunisti italiani. Lo storico Gianni Oliva evoca quell’imbarazzante  scheletro nell’armadio comunista in un volume arrivato in questi giorni in libreria:   Il tesoro dei vinti (Mondadori). Si riparla delle ultime ore di Mussolini, ma si riparla soprattutto della sorte dell’Oro di Dongo. Che fine fece il “tesoro”? Se ne perdono le tracce  subito dopo il suo trasporto alla Federazione comunista di Como: il  Pci fece di tutto per stendere un velo di silenzio sull’imbarazzante vicenda.

“Gianna”, “Neri” e gli altri omicidi

Per ricostruirne la storia  Oliva ha esaminato le carte del processo che dodici anni dopo i fatti venne istruito dalla Corte d’Assise di Padova, processo interrotto (fatto a dir poco sconcertante)  dopo quaranta audienze per il suicidio di uno dei giudici popolari e mai più ripreso. Un processo che ha lasciato in sospeso non solo verità intorno al “tesoro dei vinti”, ma ha lasciato a piede libero anche i responsabili degli omicidi che hanno fatto da contorno alla vicenda del tesoro: la morte del “capitano Neri” e della sua compagna “Gianna”, un’amica di quest’ultima, Anna Maria Bianchi, e il partigiano Giuseppe Frangi, “Lino”, uno dei carcerieri di Mussolini. Tutti testimoni scomodi di qualcosa che non si doveva sapere. Oliva, con la capacità narrativa e il rigore storico che gli sono propri, ricostruisce tutte le fasi della vicenda a partire dagli ultimi giorni di Mussolini, racconto che da solo prende buona metà del libro.

La coraggiosa inchiesta del “Meridiano d’Italia”

Chi erano “Gianna” e “Neri”? Erano i partigiani che inventariarono il prezioso materiale a Dongo. Qualche tempo dopo sparirono misteriosamente. Tutto sarebbe rimasto in silenzio se, in un giorno del settembre del 1946, il padre di “Gianna” non si fosse presentato nella redazione del Meridiano d’Italia, diretto da Franco De Agazio a denunciare la sparizione della figlia e a raccontare  tutto quello che sapeva. Il Meridiano, di cui era redattore Franco Servello (il futuro visegretario vicario del Msi di Giorgio Almirante), comincò un’inchiesta sull’Oro di Dongo che creò la rabbia del vertici del Pci. Qualche mese dopo, nel marzo del 1947, De Agazio fu assassinato da un commando della famigerata Volante rossa, guidato da Giulio Paggio (che rimase impunito perché , come tanti altri autori di massacri, si rifugiò dai “compagni”cecoslovacchi ). De Agazio può dunque, a buon diritto, essere considerato (ancorché indirettamente) un’ulteriore vittima dell’Oro di Dongo. Ma il settimanale, la cui direzione passò a Servello, contginuò coraggiosamente la sua bttaglia per la verità.

Il processo interrotto

Oliva ha analizzato  i documenti processuali, «879 pagine di verbali fitti, dattiloscritti con interlinea uno». Procedimento giudiziario chev rimase incompiuto. La morte di uno dei giurati significava rinviare il procedimento a nuovo ruolo, cioè ricominciare tutto daccapo. Ma l’avvio del processo non ci sarà «anche perché il coinvolgimento di due parlamentari (Dante Gorreri e Pietro Vergani) comporterebbe i tempi lunghi delle autorizzazioni a procedere». Poi due amnistie, nel 1970 e nel 1973, «saneranno le p. endenze ancora aperte di alcuni degli imputati e metteranno fine alla dimensione giudiziaria della vicenda». Così il Pci riuscì a mettere tutto a tacere.

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