Il calvario di Mafalda Codan e dei suoi parenti finiti nella foiba di Vines
È una via crucis, un orrore senza fine, fotogrammi di una ferocia che appare impossibile nella sua disumanità: è il racconto di Mafalda Codan, esule istriana nata a Parenzo nel 1926, torturata e imprigionata dai partigiani comunisti di Tito. Memorie affidate a un diario ripercorso oggi, giornata del Ricordo, su Avvenire da Lucia Bellaspiga.
I rastrellamenti a Parenzo
“In casa Codan – scrive Bellaspiga – famiglia agiata di possidenti terrieri, il terrore entrò subito dopo l’8 settembre del 1943, quando la dissoluzione dello Stato italiano lasciò mano libera ai partigiani comunisti di Tito, che iniziarono i rastrellamenti degli italiani. Furono portati via anche tutti gli uomini Codan: il padre di Mafalda («giunsero la notte col mitra. Mi abbracciò e mi tenne stretta per un interminabile istante», si legge sul diario) gli zii e i cugini. Caricati su un camion, vennero gettati nella famigerata foiba di Vines dove tuttora giacciono”.
Sputi e bastonate di paese in paese
Mafalda fugge con la madre e il fratello a Trieste dove il 1 maggio del 1945 arrivano nuovamente le truppe titine a seminare odio, violenza e uccisioni. “Anche la giovane Mafalda – scrive ancora Lucia Bellaspiga – fu prelevata a Trieste il 7 maggio del ’45 «senza nemmeno poter salutare la mamma» e, legata con un filo di ferro, fu condotta in Istria, di paese in paese, esposta a sputi e bastonate. Tragico l’episodio di Visinada, dove fu condotta davanti alla casa di Norma Cossetto, la giovane seviziata da diciassette partigiani e poi gettata in foiba nel 1943, oggi divenuta il simbolo dell’olocausto giuliano-dalmata: ‘Volevano che la madre di Norma, vedendo torturare me, rivivesse il martirio di sua figlia due anni dopo’, continua Mafalda. La donna per fortuna svenne”.
L’atroce storia della nave Lina Campanella
La giovane Mafalda era sicura di finire infoibata invece venne imbarcata sulla nave cisterna Lina Campanella. “Quello della Lina Campanella è uno degli epidosi più disumani – continua l’articolo di Avvenire – vi furono imbarcati 170 italiani e la nave fu spinta tra le mine. La prua esplose e l’imbarcazione prese ad affondare, mentre i prigionieri terrorizzati si buttavano in mare e i soldati di Tito li mitragliavano in acqua: fu una mattanza. ‘Ci salvammo in quindici – scrive Mafalda – e la mia prigionia proseguì a Pisino’. Oggi il castello di Pisino è meta turistica, allora era tetro carcere. La notte l’urlo dei torturati straziava chi aspettava il suo turno e Mafalda dovette riconoscere la voce di suo fratello Arnaldo, 17 anni. «L’indomani un partigiano mi disse che, anche dopo morto, il suo corpo saltava. Non dimenticherò mai quel ghigno».
La libertà arrivò solo nel 1949
E furono ancora giornate di dura prigionia a Maribor, a Lubiana, a Nova Gorica e nel Carcere di correzione politica di Begunje. La libertà arrivò solo nel 1949. Mafalda si costruirà una famiglia in Veneto. E’ scomparsa di recente ma fino a due anni fa raccontava nelle scuole, agli studenti ignari, il suo calvario e quello di migliaia di italiani. Un compito che ora passa ai figli e ai nipoti che oggi alla Camera riceveranno sette medaglie in memoria del sacrificio dei loro congiunti.