Monti è diventato un rivoluzionario alla Che Guevara (nei sogni di Casini)
Monti come Louis Antoine de Sanit-Just, uno dei rivoluzionari francesi artefici del Terrore (e di terrore, in Italia, nell’ultimo anno ce n’è è stato parecchio). O come il britannico Thomas Harrison, che pose fine al Lungo Parlamento (e qui da noi il Parlamento è stato svuotato da tempo sotto il martellamento del governo tecnico). Non è certo come Michael Collins, una delle figure di spicco della Guerra d’Indipendenza (il premier italiano si è mostrato troppo a lungo sottomesso alla Merkel per poter raccogliere la staffetta del patriota irlandese). Fatto sta che la nuova etichetta di Monti è quella di «rivoluzionario». Da uomo sobrio a novello Che Guevara, da intellettuale bocconiano a protagonista della rivolta italica. A dargliela è stato il moderato Pier Ferdinando Casini, con una motivazione – secondo lui – convincente: «Il premier ha determinato la rivoluzione dei comportamenti collettivi e individuali», ha detto il leader dell’Udc. Non ha aggiunto che quei comportamenti collettivi e individuali sono stati imposti dalle stangate e dalle tasse, dalla disoccupazione e dalla depressione, anche psicologica. Ma non importa, quel che interessa al leader centrista è solo la santificazione del tecnopremier. Infatti, corre subito a onorarlo di un altro patentino: «Monti non è un tecnico, è un grande politico». I conti non tornano, questa è una rivoluzione nella rivoluzione. È stato chiamato a Palazzo Chigi solo perché era un tecnico. Diceva di avere le mani libere solo perché era un tecnico. E ora è diventato un politico. Peraltro rivoluzionario. Ma parliamo della stessa persona? Per Casini sì. E dice di esserne convinto. Non ne avevamo dubbi.