Giorgio Pisanò, coerenza e passione

16 Ott 2012 19:57 - di

Oggi sono quindici anni dalla morte di Giorgio Pisanò, ma la sua tenace ricerca per la verità, la coerenza dei suoi ideali e la passione politica di tutta una vita non possono di certo essere dimenticate.
Quella di Pisanò è sempre stata una voce fuori dal coro, non soltanto perché dopo l’8 settembre del 1943 scelse di schierarsi «dalla parte sbagliata» e perché dopo la Liberazione continuò a combattere, riuscendo a sfuggire ai massacri compiuti dai partigiani in provincia di Sondrio, ma anche e soprattutto per la tenacia con cui non volle mai accettare le mezze verità confezionate ad arte, cercando sempre di andare al di là della notizia, per scoprirne le cause (a volte indicibili) e gli effetti. Ed è per questo che il suo contributo è rimasto pietra miliare di un giornalismo d’inchiesta verace, mai ossequioso verso il potere, ma sempre fortemente spinto dall’unico fine della ricerca della verità. Un giornalismo di segno decisamente opposto rispetto a quello di tanti «cani da guardia», con annessa museruola d’ordinanza, di un sistema politico-istituzionale del quale Pisanò volle, invece, sviscerare le profonde contraddizioni e le verità più irraccontabili. 
Le sue prime inchieste videro la luce nel 1949 sul settimanale «Il Tempo» e l’anno seguente sulla rivista «Il meridiano d’Italia», dalle cui colonne Giorgio Pisanò pubblicò una serie di dettagliati articoli, denunciando le pratiche disoneste nella gestione del potere da parte dei politicanti di turno: denunce nero su bianco, pubblicate ben quarant’anni prima dello scoppio di Tangentopoli, che restano ancora oggi testimonianze indelebili sul fatto che le diffuse pratiche del malaffare e della corruzione politica fossero ben diffuse già a partire dall’epoca dei «padri costituenti» dell’Italia democratica. I suoi articoli-denuncia proseguirono anche negli anni successivi sui settimanali «Oggi», «Settimo giorno» e «Gente». Nel 1963 diede vita al settimanale «Secolo XX», da cui proseguì la sua incessante attività giornalistica volta alla scoperta della verità su fatti rimasti in ombra, tra i quali fece scalpore una sua inchiesta a puntate sulla morte del capo dell’Eni, Enrico Mattei.
 Nel 1968 fece rivivere il «Candido», lo storico giornale fondato da Giovannino Guareschi, dando vita ad una serie di campagne giornalistiche su alcuni misteri d’Italia e su una serie interminabile di scandali del Belpaese. Fra questi, giusto per citarne alcuni, i casi Anas, Italcasse, lo scandalo dei petroli e quello sulla gestione del terremoto del ’68 nella Valle del Belice. Nel 1970 diede del «ladro» all’allora segretario socialista Giacomo Mancini, in un periodo in cui a nessuno sarebbe venuto in mente di apostrofare con simili epiteti i socialisti e ben prima della celebre battuta di Beppe Grillo. Dopo un processo durato quindici anni, nel 1985 Pisanò fu assolto dall’accusa di calunnia.
Oltre ai suoi articoli, Giorgio Pisanò pubblicò tantissimi libri, soprattutto sul vero volto di tanti cosiddetti «liberatori» e su episodi della Resistenza rimasti nascosti per decenni, ma anche su altre vicende poco chiare di casa nostra. Nel 1962, molto prima delle testimonianze di Gian Paolo Pansa, diede alle stampe il volume “Sangue chiama sangue”, in cui per la prima volta si parlò di «guerra civile», scoperchiando scenari che, secondo i diktat del potere dominante, sarebbero dovuti restare sepolti nel dimenticatoio. Da allora avviò una costante attività di pubblicazione di testimonianze sul periodo storico della Repubblica Sociale Italiana e sui misfatti nati dall’odio antifascista.
Nel 1985, con molto anticipo rispetto agli investigatori italiani, l’uscita del suo libro “L’omicidio Calvi” svelò nuovi scenari sulla morte del banchiere, sollevando non pochi dubbi sull’ipotesi che Roberto Calvi – trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra – si fosse suicidato.
L’ultima sua inchiesta ricostruì la vera fine di Benito Mussolini e Claretta Petacci e fu pubblicata nel libro “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”, uscito poco tempo prima della sua morte. Un’inchiesta, alla quale lavorò per decenni e che – basandosi soprattutto su dichiarazioni di testimoni oculari – smentì punto per punto le versioni ufficiali e soprattutto la messinscena della fucilazione del Duce ad opera di un plotone di esecuzione.
Insieme all’attività giornalistica Pisanò combatté sempre una battaglia altrettanto importante: quella per difendere i propri ideali. Appena diciottenne fu alla guida della Gioventù Italiana del Littorio nelle operazioni di aiuto alle popolazioni colpite dai bombardamenti americani. Divenne, quindi, ufficiale della Xª Flottiglia Mas, delle Brigate Nere e combatté in Valtellina con i ragazzi della Guardia Nazionale Repubblicana. Catturato dai partigiani dopo la Liberazione, finì in cella a Sondrio, Milano, Perugia, Spoleto, Pistoia, Firenze e, come molti altri combattenti della Rsi, fu internato fino al 1947 nei campi di concentramento angolamericani di Terni e di Rimini.
Tornato in libertà, fu uno dei fondatori del Movimento Sociale Italiano, diventando primo segretario federale a Como. Nel 1951 fu presidente dei gruppi di studenti medi che tre anni dopo, il 13 novembre del 1954, diedero vita alla Giovane Italia. Nel 1972 venne eletto senatore missino. In quello stesso anno la sua casa di montagna fu distrutta da un attentato, rivendicato dalle Brigate Rosse e applaudito qualche giorno dopo in un articolo del giornale «Lotta continua». Rimase a Palazzo Madama per vent’anni, durante i quali fu parlamentare attivissimo, ricoprendo, fra l’altro, l’incarico di componente della commissione Antimafia e della commissione d’inchiesta sulla P2. Nel 1991, non accettando i più recenti risvolti interni del Msi, diede vita al movimento Fascismo e Libertà e nel ’95, non condividendo la «svolta di Fiuggi» e la definitiva trasformazione in An, fu fondatore, insieme a Pino Rauti, del Movimento Sociale – Fiamma Tricolore. Facendo emergere, anche in questa scelta, la sua tempra di indomito fautore dei propri ideali.
Qualche tempo prima di morire, fiaccato da un male incurabile nel fisico, ma non nel morale, disse di sé: «Ho 73 anni e li ho vissuti bene».

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