Fiat, sette miliardi pubblici in 25 anni
Sergio Marchionne è arrivato ieri in Italia dagli Usa e prepara l’incontro di sabato con il premier Monti e
i ministri Fornero e Passera. Ma la situazione s’è fatta ieri ancora più difficile, dopo il raffreddamento della Volkswagen sul fronte della possibile acquisizione dell’Alfa. Davvero è difficile immaginare cosa possa fare, a questo punto, il governo, per convincere Marchionne a non disimpegnarsi in Italia. Italia che, va ricordato, ha beneficiato la Fiat, in venticinque anni, di ben 7,6 miliardi di euro di aiuti pubblici, al netto degli ammortizzatori sociali. E ne ha reinvestiti, ma solo dal 1990, circa 6,2 miliardi. I conti li ha fatti ieri la Cgia di Mestre, secondo cui è possibile fare solo una «stima approssimativa» ma comunque una «somma importante», quella dei 7,6 miliardi di aiuti di Stato «integrata, tra il 1990 e i giorni nostri, da oltre 6,2 miliardi di investimenti realizzati dalla Fiat sui progetti per i quali ha ottenuto i 7,6 miliardi presi in considerazione». Secondo il centro studi degli artigiani di Mestre, «gli aiuti più significativi siano avvenuti negli anni ’80, quando tutti i Governi dei Paesi occidentali sono intervenuti massicciamente per sostenere le proprie case automobilistiche».
Nel particolare, come segnala il segretario Giuseppe Bortolussi, l’«investimento più importante in assoluto è stato quello che si è reso necessario per la costruzione degli impianti produttivi di Melfi e Pratola Serra (1990-1995) che sono costati alle casse dello Stato quasi 1,28 mld di euro. Siti per i quali la Fiat ha investito, dice ancora la Cgia, ben 2 miliardi di euro. «Di un certo rilievo anche le ristrutturazioni che hanno interessato la Sata di Melfi (1997-2000) e l’Iveco di Foggia (2000-2003). Se nel primo intervento lo Stato ha investito 151 milioni di euro, nel secondo sono stati spesi 121,7 milioni di euro pubblici».
Anche in questo caso la Fiat, ha messo sul tavolo, per entrambe le fabbriche, «una cifra complessiva di poco inferiore agli 895 milioni di euro». «Da sempre – conclude Bortolussi – la politica italiana ha sempre guardato con grande attenzione e una certa indulgenza alla più grande industria privata italiana. Ora che soldi pubblici non ce ne sono più, ognuno deve correre con le proprie gambe e affrontare la concorrenza internazionale con i propri mezzi. Se, in una fase estremamente delicata come quella che stiamo vivendo, dovessimo perdere un marchio che ha fatto, nel bene e nel male, la storia industriale del Paese sarebbe un grave danno per tutta l’economia italiana». Nel calcolo comunque, spiega ancora la Cgia, « condizionato dalla presenza di molti vuoti statistici» non sono stati computati «gli ammortizzatori sociali impiegati in questo periodo nè degli ultimi contratti approvati dal Cipe nel biennio 2010-2011».