Torna di moda l’«allarmi son fascisti»

27 Ago 2012 20:20 - di

Tutta questa smania di impostare una campagna elettorale segnata da epiteti e insulti che rimandano al secolo scorso potrebbe essere stoppata con un’affermazione di buon senso fatta ieri sul “Corriere” da Beppe Severgnini: “Se uno ricorre a internet per insultare non è un fascista ma un maleducato”. Ma il fatto è che la tentazione di Pierluigi Bersani di risuscitare la qualifica di fascista come epiteto rimanda a un fattore culturale importante e rilevante che non può essere sottaciuto: appare troppo rassicurante, sia in certi settori della destra che in certi settori della sinistra, il richiamo alle ideologie novecentesche. Ma la storia, andando avanti, si prende le sue rivincite e così l’uso del termine fascista anziché diventare una bussola nelle mani del leader del Pd diventa fattore di disorientamento, di confusione, di slabbramento di un riformismo che pretenderebbe di essere moderno e avanzato. Bersani sembra aver trovato la parola-chiave, il lessico-rifugio con il quale impostare un dibattito elettorale ancora una volta “drogato” dall’abuso di antiche demonizzazioni. Tant’è che ieri è tornato sul tema, ribadendo il concetto: «Rispetto tutti e voglio parlare con tutti e intendo approfittare anch’io della sacrosanta libertà della rete. Non insulto nessuno, né tantomeno voglio iscrivere qualcuno al partito nazionale fascista che, per fortuna, non c’è più. Ho detto, e intendo ripetere, una cosa semplice e precisa. Frasi del tipo: ‘Siete dei cadaveri ambulanti, vi seppelliremo vivi’ e così via, sono le frasi di un linguaggio fascista, così come lo abbiamo conosciuto in Italia». E ha aggiunto: «È vero o no? Ci si rifletta un attimo e si risponda a questo senza divagare, senza deformare quel che ho detto, senza insultare. E a chi consiglia di lasciar correre per opportunità (o per opportunismo), rispondo che essere riformisti significa anche piantare qualche chiodo. Non pensando a noi, ma pensando all’Italia».
Ciò che sta avvenendo a sinistra ha qualcosa di paradossale: il polo che naturaliter poteva avere l’ambizione di presentarsi come alternativa a quello che ha governato fino a ieri si sta disintegrando tra gli anatemi e si sta scomponendo in parti ognuna delle quali rivendica la collocazione a sinistra che gli altri, tutto attorno, contestano. Anche così si può e si deve leggere, infatti, la durissima querelle tra due giornali come Il Fatto e Repubblica che indubbiamente sono di sinistra ma con differenti declinazioni. Secondo Ezio Mauro infatti la sinistra giustizialista alla Marco Travaglio altro non sarebbe che una “nuova destra” che delega alle procure la «redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca». Mentre Padellaro ricorda ai detrattori del suo giornale che dire “così fai il gioco della destra” era «l’anatema scagliato nelle vecchie sezioni del Pci contro chi osava mettere in discussione la linea ufficiale del partito, l’unica autorizzata a difendere le masse lavoratrici dai “provocatori” e dunque da una visione dei problemi “oggettivamente fascista”». Ma l’affondo di Padellaro va a parare su un’altra questione: chi vi dà diritto di parlare a nome della sinistra? E quando si arriva a queste fratture linguistiche e concettuali vuol dire che le divisioni sono nette e irrecuperabili e si dimostra soprattutto quanto ormai siano inservibili e insicure le etichette destra-sinistra soprattutto se usate in antitesi tra loro.
E chi sa che Bersani non abbia fatto ricorso all’insulto “fascista” proprio per cercare di coprire altre divisioni nella sua area, più collegate alla realtà che sta vivendo il paese e alle grandi questioni che attraversano la politica: il ruolo del Quirinale, quello dei giudici, la questione morale, la casta, il riformismo.
Un dibattito la cui complessità è svacalcata dall’appellativo “fascista” che dovrebbe semplificare le cose, rimettere a posto ciascuno nella sua casella e persino appagare quella voglia di “nemico” senza il quale i politici nostrani sembrano incapacitati ad agire e a dialogare. Ma è davvero così? Purtroppo per Bersani la comunicazione oggi è più complicata, e quel suo andare a scovare tra i rottami del suo animus di ex comunista l’evocazione del Pnf rischia di diventare alla lunga un boomerang. Semplicemente perché rischia di non essere compreso, di apparire vecchio e inadeguato. Lo conferma l’analisi, super partes, della linguista Valeria Della Valle, che insegna alla Sapienza. Con il termine «fascista» usato dal segretario del Pd «sembra riemergere un linguaggio del passato che ha una forte valenza identitaria per gli elettori maturi della sinistra ma che per i più giovani, in particolare se non schierati, rischia di essere poco efficace perché poco comprensibile».  «Se nel passato poteva risultare era del tutto normale, ed efficace linguisticamente, tacciare qualcuno con questo termine, ora la parola è potenzialmente equivoca, non del tutto convincente. Oltretutto – ricorda Della Valle – chi poteva essere identificato come sostenitore attuale del ‘fascismo’ ha compiuto un percorso che ha portato al pieno inserimento nel processo democratico. Insomma, dal punto di vista comunicativo si tratta di un linguaggio un po’ ‘vetero’, un po’ superato, e dunque inefficace».
Ma Bersani, secondo lo storico defeliciano Giovanni Sabbatucci, si rivolge principalmente alla sinistra per tracciare uno steccato, un confine: qua noi, di là quelli che ci detestano. Un modo per dire chiaramente che chi ha simpatie "grilline" nulla ha a che fare con la sinistra. Una scorciatoia che dovrebbe mettere d’accordo la sinistra montiana e quella antimontiana, quella scalfariana e quella manettara, quella pro-Napolitano e quella antipresidenzialista. «Fascista» diventa così la parolina magica che impedisce alla sinistra stessa di guardare al suo vuoto identitario. E troppo spesso anche sull’altro fronte la parola «comunista» assolve allo stesso compito. È bene che ci si rifletta, prima che la campagna elettorale entri nel vivo e prima che si imbocchi una deriva definitiva.

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