AAA vendesi Italia. E torna l’incubo del Britannia
Il piano è sofisticato, diabolico, subliminare: vendere pezzi del patrimonio pubblico grazie alla complicità, inconsapevole, degli italiani. In questi scampoli di agosto, tra fiumi di lacrime e sudore, il governo si prepara a mettere mano alle dismissioni per abbattere il debito pubblico, utilizzando una società per azioni costituita ad hoc per coinvolgere i risparmiatori nella vendita degli immobili e delle partecipazioni statali. Le azioni della società chiamata a gestire le dismissioni saranno messe sul mercato dietro promesse di dividendi alti, garantiti proprio dalla vendita di quei beni pubblici che appartengono anche a tutti coloro che decideranno di acquisire pacchetti di controllo della stessa società, fiutando l’affare. Come dire, amico italiano, dammi i tuoi soldi e aiutami a vendere il divano di casa, che poi ti passo una provvigione. Una bella partita di giro, in epoca tremontiana l’avrebbero chiamato “finanza creativa”, in era montiana viene presentata come l’abile mossa per dare scacco al debito sacrificando “inutili” pezzi di patrimonio pubblico. Si parla di sessanta miliardi di beni da vendere in un anno, soprattutto immobili (valutabili intorno ai 500 miliardi), su una dotazione totale di beni pubblici, comprensivi di partecipazioni, pari a circa 600 miliardi di euro. Una mossa “tecnica”, guarda caso, la stessa che caratterizzò i governi Amato e la gestione Iri di Prodi, a cavallo degli anni Novanta, con la mediazione di quella Goldman Sachs di cui Monti, Draghi e lo stesso professor Mortadella sono stati appassionati consulenti. Ma anche i tempi dell’operazione-dismissioni sono sospetti: il planning sul patrimonio immobiliare, dalle caserme ai palazzi di pregio da mettere all’asta, non sarà pronto prima di fine anno e di conseguenza la (s)vendita inizierà con tutta probabilità con un nuovo governo, in primavera. Ecco un altro motivo per il quale il Colle lavora a un voto anticipato e a un reincarico a Monti: Napolitano rivuole il professore bocconiano in sella quando si tratterà di dare in pasto ai mercati (e alle grandi banche d’affari) palazzi pubblici e quote di aziende strategiche per tranquillizzare i tedeschi, gli speculatori dello spread e gli europeisti integralisti.
Le svendite di Amato e Prodi
L’attività di Prodi dal 1982 al 2007, prima come presidente Iri e poi come premier, è stata in gran parte dedicata alla vendita di pezzi di aziende ed enti pubblici: talvolta, come nel caso della Cirio, al suo amico Carlo De Benedetti Al termine dei 7 anni di presidenza Prodi, il patrimonio dell’Iri risultò dimezzato per la cessione di pacchetti azionari di gruppi quali Alfa Romeo e Fiat e del gruppo Cirio-Bertolli-De Rica. Vale appena la pena di ricordare che nel 1992, negli anni del governo “tecnico” di Giuliano Amato, banchieri, finanzieri e manager italiani e internazionali si incontrarono sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, e discussero del processo di privatizzazioni. Tra i croceristi c’era anche il finanziere George Soros, amico di Prodi. Tre mesi dopo, accadde l’irreparabile: la svalutazione del 30% della lira, la perdita secca di 50 miliardi di dollari e l’inizio delle svendite di Stato. Svendite “tecniche”, ieri come oggi.
I tentativi di smobilizzare
Già nel marzo del ’90 in Italia era sorta una Commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare pubblico e per le privatizzazioni, presieduta dal professor Carlo Scognamiglio, che aveva stilato un documento atto a determinare le condizioni per l’adozione di una prima misura governativa per definire le regole generali delle privatizzazioni. Ma fu in seguito, con il governo Amato, che furono avviate le trasformazioni dell’Iri, dell’Eni, dell’Enel e dell’Ina in società per azioni. E lì iniziò ufficialmente il piano di dismissioni selvagge. L’avvio effettivo del processo di privatizzazione in Italia è datato 1992: la maggior parte delle vendite realizzate in quell’anno furono effettuate dal Tesoro mentre una quota minore fu gestita direttamente dal gruppo Iri. Complessivamente la cessione di mercato di quote di aziende pubbliche tra il 1992 e il 1999 ammontò a circa 185.000 miliardi di lire, pari all’1% del Pil.Furono privatizzate tutte le aziende statali nel settore dell’acciaio e in quello alimentare mentre si ridusse il controllo nei settori strategici quali quello dell’elettricità, delle telecomunicazioni, del petrolio, dei prodotti chimici, dei trasporti. Tutto questo, come dimostrano i fatti, non bastò a frenare, bloccare e tamponare l’emorragia del debito pubblico contro cui oggi Monti scende ancora una volta in campo attigendo ai gioielli di famiglia.
Il piano Monti
“Approvazione anche di una apposita legge sulla concorrenza, dismissioni del patrimonio pubblico per ridurre il debito e mantenere fede agli impegni, rinnovamento della scuola
in direzione di più efficienza e meritocrazia, detrazioni fiscali a favore delle famiglie, rifinanziamento della social card, fino all’adozione dell’agenda digitale, alla facilitazione delle start up e alle semplificazioni burocratiche a favore delle imprese”. Il libro dei sogni di questi giorni, firmato Monti, prevede un’agenda fittissima, con l’obiettivo di ridare slancio alla crescita. Ma nei prossimi mesi il piatto forte dell’azione del governo si incentrerà sulla riduzione del debito pubblico, in particolare “mettendo in atto gli strumenti creati per procedere alla valorizzazione e successiva dismissione del patrimonio dello Stato, sia degli immobili che delle partecipazioni pubbliche (Fintecna, Sace, Simest)”. Sono note ufficiali che chiariscono il cosa, ma non il come. Proprio come ai tempi di Amato e Prodi.