Al premier non riesce la scommessa di Kiev
Mario Monti ci ha provato: andando a Kiev ad assistere alla mesta finale degli europei 2012 ha fatto la sua scommessa e ha perso. Già uscito vincitore dal vertice di Bruxelles contro il rigore della Merkel, l’eventualità di poter festeggiare gli azzurri con la coppa librata in alto, gli avrebbe regalato quello sprint che negli anni Ottanta lubrificò il decennio craxiano, che significò riflusso nel privato ma anche modernizzazione, e che consacrò l’esultante Sandro Pertini come icona nazionale. Ma quello del 1982 fu un altro film: quello del ritorno in piazza dei tricolori, una promessa di felicità (così recitava il titolo di un libro) in cui l’Italia si lasciò cullare coniugando patriottismo e fine delle ideologie (Giano Accame scrisse sull’argomento un bel libro, dal titolo Socialismo tricolore). Purtroppo per i milioni di italiani che erano pronti a sventolarlo ancora, quel tricolore, la scena che abbiamo visto all’Olympic Stadium è stata ben diversa dai fotogrammi del 1982: al posto dell’urlo liberatorio di Tardelli le lacrime del “nuovo italiano” Balotelli e una serie di infortuni, zoppicamenti, indecisioni, tentativi andati a vuoto che sono sembrati la metafora dolorosa di un paese ancora troppo fragile, di un paese che non sa se ce la farà o meno, nonostante la luce in fondo al tunnel. Anche l’immagine di Monti è adesso coinvolta in quella di una disfatta che difficilmente dimenticheremo. Lo stesso Monti che due giorni prima era incoronato dal popolo del web con la crestina insolente di Mario Balotelli, perdonato quasi del tutto dai tifosi italiani per aver invocato la soppressione del campionato in seguito allo scandalo del calcioscommesse, e ora sotto processo per non aver cantato l’inno e dileggiato da giornali come Libero e Il Giornale che gli danno del menagramo (seconda tappa del giornalismo vernacolare che aveva già colpito Angela Merkel: “Ciao ciao culona” e “Vaffanmerkel”). Ma non solo: anche il web non è stato generoso col premier in trasferta a Kiev. Dopo il primo gol subìto dall’Italia il passaparola si è diffuso fulmineo, rapido e inarrestabile: “Monti porta sfiga”. Non essendoci l’arbitro Moreno a fare da capro espiatorio è toccato a lui, a Mario Monti, il premier che la stampa internazionale ha ribattezzato “italiano contro natura”, alieno dalla passionalità e dai riti scaramantici del tifo italiano, con il quale fece i conti anche Silvio Berlusconi quando si ritrovò contro gli ultrà del Milan imbufaliti perché la squadra non faceva gli investimenti giusti o quando fu proposto addirittura ai sostenitori rossoneri di scrivere sulla scheda elettorale, per protesta, “non si vende Kakà”.
Purtroppo per Monti l’Italia che tira la cinghia, l’Italia che fa sacrifici, l’Italia che non considera il lavoro un diritto ma una conquista, l’Italia a un passo dal baratro, l’Italia in affanno è stata identificata con l’Italia perdente a Kiev. Un paese dove persino il tifo resta muto, arrotola le bandiere e tira le somme: sarà per un’altra volta. Resta la metafora del “gioco di squadra” come ancora di salvezza, come formula magica per esorcizzare il peggio, come mantra cui ricorrere per rimettersi in piedi. Mentre al “preside” Monti non resta che sfoderare la saggia massima con cui i vecchi addolciscono le delusioni dei più giovani: dopo avere sognato c’è il momento della sveglia, è la vita.