Valorizzare i beni dello Stato? Meglio tardi che mai

14 Giu 2012 20:42 - di

La linea Maginot del governo Monti è finalmente crollata e sembra relegata in soffitta l’idea dei tecnici a Palazzo Chigi di portare l’Italia fuori dalla crisi con il solo perseguimento dell’avanzo primario. Dopo sette mesi di esecutivo dei professori e un centinaio di miliardi di stangate in più sulle spalle dei cittadini, il premier e i suoi più stretti collaboratori hanno alzato bandiera bianca. Il presidente del Consiglio, da Berlino, ha escluso possibili manovre aggiuntive e quindi una nuova stretta sul fronte delle entrate annunciando, nel contempo, operazioni straordinarie di aggressione del debito pubblico attraverso la cessione (o la messa a reddito) di una parte importante del patrimoni dello Stato e degli enti locali. E le accuse di voler svendere tutto in un momento di crisi dei mercati e con la liquidità ridotta all’osso? Non ci sarà da preoccuparsi: sarebbe in via di costituzione la società veicolo (una sgr) attraverso cui promuovere fondi mobiliari e immobiliari per «convogliare, in vista di cessioni, attività del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale». È l’uovo di Colombo che potrebbe consentire di tagliare il debito di 6 o 7 punti di Pil in una volta sola, centrando una serie di obiettivi tra cui quello di tacitare i mercati, ridurre lo spread e tagliare la spesa per interessi. Il valore degli immobili e delle società in mano pubblica viene infatti stimato in circa 1.800 miliardi di euro (500 di soli immobili), vale a dire più o meno il valore dell’intero debito.

Mossa a effetto

L’annuncio di Monti è arrivato mentre lo spread resta inchiodato su livelli di grande preoccupazione (attorno ai 470-480 punti) e mentre le resistenze della Germania impediscono che dall’Europa arrivi un piano continentale strutturato in modo da rilanciare lo sviluppo. In attesa di presentarsi al vertice di fine giugno (il 28 e il 29) per reclamare un’inversione di tendenza, dopo che lui stesso è stato uno degli sponsor del rigore voluto dalla coppia Merkel-Sarkozy, il premier ha capito che la strada dell’aumento delle entrate è lastricata di trabocchetti e rischia di farci fare la fine della Grecia, perché da una parte impoverisce l’economia e dall’altra taglia i consumi, riduce lo sviluppo e quindi comprime il gettito, generando nuove necessità e quindi creando le premesse per nuove tasse. Un vero e proprio vicolo cieco, da cui il nostro governo ha ritenuto di uscire dando retta a chi (il Secolo d’Italia è tra questi fin dalla scorsa estate) continuava a ripetere che da un governo di tecnici ci si sarebbe atteso dell’altro: la riduzione della spesa e l’abbattimento del debito attraverso al vendita di beni pubblici.

Ritorno a Berlusconi
Si parte da Giulio Tremonti. È stato, infatti, il ministro dell’Economia di Berlusconi che, con il decreto 98 del luglio 2011, ha previsto la possibilità di creare una sgr pubblica (la titolarità sarà del Demanio) per promuovere  più fondi che valorizzino le proprietà di Stato ed enti locali. Il boicottaggio che arrivò da più parti impedì di andare oltre. Adesso, però, il governo avrebbe già pronto un decreto in questo senso ed enti previdenziali e Cassa Depositi e Prestiti (in base  a quanto previsto dalla ricetta Tremonti può entrare in queste operazioni) sono già stati messi in allarme. I primi, perché dovranno destinare a questo scopo quel 20 per cento della quota annua che, secondo la legge, deve essere destinato all’acquisto di immobili, la seconda perché, secondo quanto se ne sa ha, già messo sul tavolo due miliardi di euro, somma che gli è servita per costituire due fondi con cui operare sulle partecipazioni azionarie di Comuni e Regioni e sugli immobili pubblici.

Meglio tardi che mai

Monti, in sostanza, sembra aver scoperto quello che, fin dall’inizio, avrebbe dovuto essere la stella polare di un governo come il suo. Adesso si tratta di incalzarlo perché il cammino, appena iniziato, prosegua. È compito del Pdl farlo, infischiandosene delle resistenze che arrivano da ben individuati settori pubblici interessati a mantenere una situazione di ingessature che consente a molti privilegiati di continuare a lucrare sulle sventure del Paese. Il debito pubblico, che ha fatto lo Stato, deve essere eliminato facendo ricorso in primis a quello che lo Stato possiede. Solo dopo si può fare ricorso al debito e alle tasse. Questi sette mesi che il governo Monti ha perso, non dando ascolto a consigli disinteressati arrivati anche dalle colonne di questo giornale, sono stati un vero e proprio delitto. Perché nel frattempo ci si è serviti di questi asset per fare altro debito, anche se gli apparati della pubblica amministrazione e la Ragioneria generale dello Stato tendono a far credere il contrario e sottolineano l’inopportunità delle dismissioni.

L’alt della Ragioneria

Non ci si può aspettare che sia proprio chi beneficia di questo stato di cose a decidere che è il momento di cambiare rotta. E la Ragioneria, che puntualmente si incarica di scoraggiare ogni iniziativa in questo senso, non fa certo eccezione. Mario Canzio, classe 1947, diciannovesimo Ragioniere generale dello Stato, ha letteralmente in mano i rubinetti della spesa pubblica, può dire sì o no anche al presidente del Consiglio in persona, gestisce un portafoglio di aziende dove figurano ancora rilevanti partecipazioni dell’Eni, dell’Enel e di Finmeccanica. Dismettere equivale a indebolirlo. Non si può pretendere che batta anche le mani. Un esempio aiuta a capire meglio qual è il rebus della situazione. Ogni anno lo Stato destina 33 miliardi di euro (due punti di Pil) a incentivi per le imprese. Nulla di scandaloso se questa somma servisse a fare innovazione e sviluppo. Invece così non è, tanto che la stessa Confindustria si è detta disponibile a rinunciare. Guardando all’interno delle cifre si scopre infatti che di questi 33 miliardi ben 30 sono di trasferimenti netti verso le aziende pubbliche, 1,7 miliardi servono per acquisti nell’ambito militare e solo poco più di un miliardo vanno alle aziende del settore privato. Tra i beneficiari c’è di tutto, tranne che incentivi alle imprese che innovano. Basti ricordare che della somma complessiva, mezzo miliardo l’anno circa viene percepita dalle Poste e 7 miliardi o poco più dalle Ferrovie. Ma a disorientare non è solo questo. Tutti pensano che i 33 miliardi vengano gestiti dal ministero per lo Sviluppo economico, ma non è così. Da Via Veneto passano solo 1,5 miliardi, tutto il resto è nelle mani della Ragioneria che quindi ha un potere enorme e si presenta come il vero guardiano di una situazione di ingessature che produce spesa pubblica e nuoce allo sviluppo.

Alleati della Merkel
E in questo intreccio di interessi che si nascondono gli alleati della Merkel. Quelli che, senza dirlo apertamente, stanno chiedendo oggi a Monti quello che un anno fa pretendevano da Berlusconi: la richiesta d’intervento del Fondo salva-stati della Ue e del Fondo monetario internazionale. Aiuti sicuramente non disinteressati che, per un Paese con un debito come quello dell’Italia, potrebbero costituire il nodo scorsoio destinato a strangolarci. Berlusconi disse no e, nel G20 di Cannes dello scorso ottobre, preferì fronteggiare lo scherno della cancelliera tedesca e di Sarkozy piuttosto che soccombere alla dittatura dello spread. Oggi l’arma viene azionata nuovamente e le sirene tornano a farsi sentire. Monti ha declinato l’invito. Fino a quando?

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