Dramma giovani: uno su tre è disoccupato
Il papocchio è bell’e fatto. Tagliuzza qua e tagliuzza là, fai un passo da elefante sull’età (pensionabile, senza elisir di lunga vita), cambia velocemente le regole del gioco e ti trovi in un mare di guai. È quello che è capitato al governo dei tecnici, che ora deve far fronte al dramma della disoccupazione, che non ha mai raggiunto livelli alti come in questi giorni. La situazione va deteriorandosi velocemente, con il tasso di non-lavoro che, a febbraio, ha raggiunto il 9,3 per cento, in aumento dello 0,2 per cento rispetto a gennaio e dell’1,2 per cento su base annua. Un dato al top dal 2004, ma che da solo non basta a far capire il fuoco che si nasconde sotto le cifre. Se disaggreghiamo il dato fornito ieri dall’Istat scopriamo infatti che per i giovani la situazione è da allarme rosso, con un tasso di senza lavoro – per la fascia compresa tra 15 e 24 anni – che arriva al 31,9 per cento (+0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e +4,1 punti su base annua), il tasso più alto dal quarto trimestre del 1992, ovvero dall’inizio delle serie storiche. Per le giovani donne del Mezzogiorno va addirittura peggio, con un picco del 49,2 per cento. Anche gli stranieri, che pure possono contare sul fatto che la ricerca è in prevalenza indirizzata verso lavori di bassa qualificazione che in molti casi non interessano gli italiani, vedono aumentare le difficoltà a trovare un impiego, con il tasso di disoccupati passato dall’11,6 del 2010 al 12,1.
L’Istat fa qualche conto e comunica che, tradotti in cifre assolute, questi dati portano il numero dei disoccupati di febbraio ad aumentare di 335mila unità rispetto a un anno prima, vale a dire il 16,6 per cento della cifra complessiva. Tutto nero, quindi? Non del tutto. Per gli ultra-cinquantacinquenni le cose vanno meglio del previsto: a febbraio l’occupazione più adulta segna un aumento di 164mila unità, soprattutto a tempo indeterminato. Una sorpresa, ma non tanto. Monti e i ministri Fornero e Passera, infatti, si riempiono ogni giorno la bocca della necessità di favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, ma le riforme finora varate vanno nella direzione opposta. Si pensi, ad esempio, alle nuove pensioni targate Fornero che ritardano l’accesso alla pensione dei lavoratori anziani e, pertanto, favoriscono la loro permanenza in azienda, con il risultato di bloccare il turn-over e mantenere fuori i giovani. Non è un caso se la componente giovanile, quella con meno di 34 anni, segna una caduta significativa di occupati, quantificata dall’Istituto centrale di statistica in 253mila unità. E per le donne non va certo meglio. In un solo mese la componente femminile che cerca lavoro e non lo trova è cresciuta di 44mila unità, con una componente di non occupate che al Sud raggiunge il 49 per cento.
Dati drammatici, secondo il Pd, mentre l’Italia dei valori parla di vero e proprio macigno sulle modifiche all’articolo 18. «La crisi avanza», rileva il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella, «e i numeri dell’Istat testimoniano che «la flessibilità in uscita non è una soluzione». Serve invece, secondo il vececapogruppo vicario del Pdl al Senato Gaetano Quagliariello, «una legge che faccia crescere l’occupazione e dia una spinta alla crescita». E il dibattito sull’articolo 18? Quagliariello non lo cita espressamente, ma rileva che «i dati diffusi dall’Istat dicono che una legge in materia di lavoro, che consenta di occupare più facilmente e di dare una spinta alla crescita economica, è oggettivamente una priorità per il Paese».
Un argomento, quello dello sviluppo, che ritorna anche nelle argomentazioni di Emma Marcegaglia e della Cisl. La prima che chiede di lavorare per allargare la base produttiva e la seconda preoccupata dal fatto che assieme alla riforma del lavoro non si discuta anche di «rilancio del patto per la crescita», articolato in investimenti produttivi, potenziamento delle infrastrutture e delle reti energetiche, riduzione del carico fiscale su lavoratori e pensionati e contrasto dell’evasione. Tutto questo e anche dell’altro. Infatti, mentre i senza lavoro aumentano a dismisura nel nostro Paese continua ad essere forte l’incapacità di mettere a frutto quelli che Pietro Ichino chiama «alcuni enormi giacimenti di occupazione». Così almeno mezzo milione di posti restano scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria. È evidente che i servizi pubblici per l’impiego non sono in grado di svolgere questo compito di mettere in relazione chi cerca un lavoro con le aziende che hanno necessità di assumere. Eppure nel nostro Paese sono già operative le agenzie private di outplacement che dovrebbero svolgere proprio questo lavoro. Come mai non lo fanno? Ma perché molto spesso il lavoratore non si fida. E poi costano. Forse non sarebbe male fare un riflessione su questo aspetto della questione nel momento in cui si è deciso di riconsiderare gli ammortizzatori sociali. È evidente che i problemi si riducono se un’azienda, nel momento in cui licenzia un lavoratore, lo mette anche in relazione con un’agenzia in grado di ricollocarlo in tempi accettabili e senza costi spropositati.
Poi ci sono gli investimenti esteri in Italia. Negli ultimi anni abbiamo fatto malissimo, superando in performance soltanto la Grecia. Bisogna invertire questo trend. Monti è stato nei giorni scorsi in Asia e ai cinesi ha spiegato che abbiamo in cottura una riforma del mercato del lavoro che «concilia flessibilità e sicurezza». Due paletti ancora da piantare nel terreno ma che, comunque, non è detto siano in grado di portare a soluzioni adeguate. Gli investitori stranieri disertano l’Italia perché il costo del lavoro è alto, ma la disertano soprattutto perché c’è una pubblica amministrazione che non funziona (si pensi ai tempi della Giustizia), le infrastrutture sono inadeguate, i trasporti pure. Senza parlare del peso dell’energia che fa pagare ai nostri imprenditori costi supplementari salatissimi rispetto alla concorrenza estera. Abbiamo rinunciato alle centrali nucleari ma adesso dobbiamo ottimizzare il resto. Gli ostacoli ai rigassificatori, ad esempio, sono inspiegabili. Rischiamo di non disporre della materia prima per supportare lo sviluppo, anche sobbarcandoci oneri (per acquisti all’estero e rinnovabili) che, allo stato delle cose, appaiono insopportabili.