Chi ha paura di Bedeschi fascista?
Federale di Forlì, direttore del bisettimanale fascista “Il Popolo di Romagna”, comandante della Brigata Nera “Capanni”. È la storia inedita dell’ufficiale medico nonché alpino Giulio Bedeschi (1915-1990): prima volontario e con molto onore alle campagne d’Albania, di Jugoslavia e di Russia, poi dopo l’8 settembre 1943 nella Repubblica di Salò. Infine sfuggì alle rappresaglie partigiane e visse per alcuni anni in Sicilia.
Ha provveduto “Avvenire” il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, a raccontare la vera storia dell’autore di “Centomila gavette di ghiaccio”. Ecco spiegato anche perché dopo la guerra e per una dozzina d’anni, il manoscritto delle “Centomila gavette di ghiaccio” abbia collezionato ben 16 rifiuti presso diversi editori. Rifiuti dettati da una motivazione politica. Non si poteva pubblicare un autore «fascista».
Alla fine Mursia (la casa editrice fondata tra l’altro dall’ex partigiano Ugo) ebbe il coraggio e la lungimiranza di pubblicarlo: ne ha stampate finora quattro milioni di copie. Lo storico locale bresciano, Lodovico Galli, ha ritrovato in particolare relazioni firmate dal federale Bedeschi e foto che mostrano il futuro scrittore mentre passa in rassegna i militi. Galli ha portato alla luce anche due lettere a Mussolini, conservate all’Archivio Centrale dello Stato di Roma e in copia nel Fondo Susmel del Centro Studi e documentazione Rsi di Salò. Nella prima lettera, datata 2 marzo 1945, Bedeschi chiede per sè e i suoi soldati «l’ambitissimo privilegio di poter portare sul petto l’«M d’onore del Duce». Nella seconda lettera, inviata il 6 marzo dello stesso anno da Milano, fornisce invece a Mussolini un «appunto» sullo stato della brigata Capanni.
Il padre compagno di banco del Duce
Bedeschi all’epoca aveva 30 anni e probabilmente non poco del suo fascismo derivava dal padre Edoardo, classe 1880, che era stato compagno di scuola di Benito Mussolini a Faenza. Il padre fu un pubblicista molto attivo ed aveva pubblicato nel 1938 un libro di un certo successo su “La giovinezza del Duce”, oltre a vari volumi scolastici; infatti era direttore didattico nel Veneto (Giulio nacque ad Arzignano) e tornò in Romagna come ispettore scolastico poco prima degli anni Quaranta.
Fu certamente per questo che il figlio Giulio Bedeschi nel novembre 1943 divenne direttore del periodico della Rsi “Il Popolo di Romagna”, che nel suo primo editoriale assicurò fedeltà al fascismo: «Dottrina che più di ogni altra costituisce, se applicata integralmente, la realizzazione delle più alte aspirazioni del popolo… Le nostre premesse ideologiche sono assolute, sono quelle del Fascismo di Mussolini». In forza di tale incarico il 4 marzo 1944 Giulio Bedeschi venne nominato «reggente della federazione dei Fasci Repubblicani» di Forlì, succedendo ad Arturo Capanni, ucciso all’inizio di febbraio 1944 in un attentato. In seguito alla militarizzazione obbligata degli iscritti al partito fascista, infine, nell’agosto successivo Bedeschi assunse il comando della locale Brigata Nera intitolata al medesimo Capanni e all’inizio di novembre, poco prima della liberazione alleata di Forlì, passò con i suoi soldati nel Vicentino (zona a lui ben nota) con compiti d’occupazione oltre che d’assistenza a 300 sfollati forlivesi e di sussistenza per i 300 soldati del Battaglione d’assalto «Forlì» al fronte. Dalle ricerche è risultato poi che fino al 1949 Bedeschi risultò trasferito a Ragusa, in Sicilia. Fu lì che scrisse le “Centomila gavette”, la cui prima stesura però andò perduta nell’alluvione del Polesine del novembre 1951: epoca in cui il medico-scrittore era dunque già rientrato al Nord. Dopo il suo successo editoriale, del periodo «nero» dell’autore non si parlò più, e per comprensibili motivi. Del resto, secondo una testimonianza della moglie, che ne ha curato un’opera postuma, Bedeschi «non riteneva ancora, al momento della morte, che fossero maturi i tempi per parlare di quel periodo in modo sereno».