Bossi lascia. Al suo posto in tre fino al congresso
Umberto Bossi lascia il timone della Lega. Fuori i fedelissimi lo acclamano sventolando striscioni con il suo nome, dentro lui apre la seduta del Consiglio federale con le dimissioni irrevocabili. È l’istantanea delle ore 16 davanti alla sede del Carroccio di via Bellerio. «Mi dimetto per il bene del movimento e dei militanti, la priorità è il bene della Lega e continuare la battaglia». È la giornata più difficile della storia della Lega Nord, scossa dalle fondamenta dall’affaire Belsito che si ingrossa di ora in ora. Inutile insistere sulla tempistica a orologeria delle Procure, inutile sventolare il vessillo della gloriosa Padania vittima del complotto dei poteri forti, inutile cercare scudo dietro la teoria della mela marcia. «Chi sbaglia paga, qualunque sia il cognome che eventualmente porti», ha detto il Senatùr.
Al posto di Bossi, nominato presidente, arriva il triumvirato composto dall’ex ministro Roberto Maroni, dal coordinatore nazionale, Roberto Calderoli, e dalla lady veneta Manuela Dal Lago (in un primo tempo si era fatto il nome di Giorgetti). «Oggi decido la nomina del nuovo segretario amministrativo della Lega, il Consiglio federale si riunisce per questo», aveva detto un Bossi piuttosto alterato entrando nella sede di via Bellerio. L’ordine del giorno viene rispettato con la nomina di Stefano Stefani come nuovo amministratore del partito (stavolta sarà coadiuvato da una società esterna) ma è solo un particolare formale perché la notizia è un’altra e va nella direzione auspicata dal fronte nuovista dei maroniani che in queste ultime ventiquattr’ore di passione hanno soffiato sul fuoco del repulisti morale e generazionale. Il fuori programma delle dimissioni «irrevocabili» del capo è uno tsunami annunciato. L’ipotesi di mollare prima del congresso sotto il pressing incrociato delle procure e della minoranza interna era nell’aria ma non una soluzione scontata né facile. In tanti, anche fuori dai confini del partito, gli riconoscono coraggio e coerenza. È Matteo Salvini il testimone più loquace con i cronisti: «Bossi è stato salutato da un Consiglio federale commosso. Nessuno ha chiesto le sue dimissioni, lui è arrivato già convinto, con una scelta decisa e sofferta». Al posto del leader malato i vertici leghisti scelgono una terna che dovrà portare il partito al congresso nazionale del prossimo autunno, dopo essere passato sotto le forche caudine delle amministrative. Un compito da far tremare la vene ai polsi: in gioco ci sono il futuro, o forse la stessa sopravvivenza del movimento padano, la leadership, il cambio di passo nell’establishment e nei rapporti con l’elettorato.
Maroni ha ottenuto l’esito sperato (per il quale ha lavorato a lungo) ma ha dovuto incassare gli insulti di “buffone buffone” e “Giuda” all’uscita dalla sede di via Bellerio. All’ex ministro dell’Interno non mancano l’intelligenza e l’astuzia oratoria, «mi sono commosso – racconta – e ho detto a Bossi: se deciderai di ricandidarti al congresso federale questo autunno io ti sosterrò». Al di là del totosegretario, le pesanti vicende giudiziarie che coinvolgono la famiglia del capo spiazzano e dividono la base: c’è chi sostiene che è necessario cambiare e chi non ha dubbi sull’esistenza di un complotto ai danni dell’unica «forza d’opposizione»; c’è chi vede nel cerchio magico la vera iattura del movimento padano e prega che i “vecchi” si facciano da parte. Anche chi sostiene che dietro le indagini ci sia lo zampino della “cricca di Monti” non nega che negli ultimi tempi l’ex gladiatore celodurista abbia perso verve e lucidità. «Da qualche tempo, però, cioè dopo la malattia, Bossi è inadeguato. Quando lo intervistano non si capisce niente oppure risponde con volgarità. Tra l’altro si circonda di personaggi come Rosy Mauro e Cota…», è uno degli sfoghi raccolto da “RadioPadania”.
«Bossi è il più grande uomo che io abbia mai conosciuto in vita mia», è il commento del presidente federale della Lega Nord, Alessandro Alessandri, lasciando la sede del Carroccio. Tra i più duri contro la dirigenza, invece, c’è proprio quel Bruno Caparini che da decenni ospita Bossi a Ponte di Legno. E che era stato individuato come uno dei possibili tesorieri al posto di Belsito. «Bossi dovrebbe fare un passo indietro da segretario federale della Lega perché la militanza non lo vuole più», diceva in mattinata. Secondo Caparini, neanche a dirlo, a fare da traghettatore in questa fase dovrebbe essere Bobo Maroni. «Bossi può rimanere il nostro grande leader. Tutti sono con lui e tutti soffrono di questa situazione». E così è stato. Al fondatore e anima della Lega, tutt’uno con la sua creatura, il Consiglio federale riserva lo scranno d’onore della presidenza. Ma è difficile immaginare che l’Umberto se ne stia lì buono a fare il vecchio saggio in pensione.
«Non c’è bisogno di rottamazione, c’è bisogno di congressi – dichiara alle agenzie Flavio Tosi prima dell’annuncio delle dimissioni – i congressi decidono se cambiare o continuare». Il nostro futuro dipende da cosa facciamo – dice il sindaco di Verona, preoccupato dai contraccolpi elettorali – se passa il messaggio che vogliamo cambiare i cittadini ci seguono. «Se anche Bossi non fosse il segretario è chiaro che dovrebbe avere un ruolo all’interno del movimento, perché la Lega è Umberto Bossi e Umberto Bossi è la Lega». Politicamente il discorso non fa una piega, ma non piace a chi continua a vedere in Bossi un’icona sacra e venerabile. «Oggi è Giovedì santo e c’è la lavanda dei piedi. Consiglio a Tosi di correre in Via Bellerio, lavi i piedi a Bossi e mentre lo fa, si lavi la sua bocca con la candeggina», replica il cofondatore della Lega, Giuseppe Leoni.