50 anni fa la “Spoon river” dei vinti
Giusto cinquanta anni fa, nel 1962, il giornalista Giorgio Pisanò pubblicava un libro importante, uno di quei testi destinati a diventare un titolo-crocevia della ricerca storiografica. Il titolo era luttuoso: Sangue chiama sangue. Il sottotitolo spiegava il macabro contenuto di quell’inchiesta che presto conobbe una grande popolarità tra i seguaci della “parte sbagliata”. Recitava così: le terrificanti verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di dire sulla guerra civile in Italia. Oggi, dopo il successo dei libri di Giampaolo Pansa, a cominciare da Il sangue dei vinti, le storie raccontate da Pisanò sono di dominio pubblico. All’epoca non era così, all’epoca la nozione di “guerra civile” affiancata alle cronache resistenziali suonava come una novità sacrilega che solo quei proscritti dei missini predicavano nel loro “ghetto”. Pisanò del resto, ex combattente della Rsi, fu tra i fondatori del Msi (guidava agli inizi la federazione di Como) e in seguito divenne senatore dal 1972 al 1992 per poi restare ai margini della vita politica dopo aver rifutato la svolta di Fiuggi e lo scioglimento della fiamma in An.
Il libro di Pisanò si apre col racconto dell’uccisione del federale di Ferrara Igino Ghisellini, il 14 novembre del 1943, e si chiude con il resoconto dell’eccidio dei fratelli Govoni l’11 maggio del 1945. Le storie raccontate da Pisanò facevano parte di una precisa strategia dei comunisti italiani, che disponevano di una rete di almeno 4mila uomini armati: quella di scatenare una sanguinosa guerra civile con una serie di azioni terroristiche contro singoli fascisti isolati (spesso coinvolgendo anche i familiari innocenti). Quello sarebbe stato il passo iniziale verso la grande insurrezione. Pisanò scrive che gli elementi di punta di questa guerra privata comunista furono i gap (gruppi di azione patriottica). Gli obiettivi erano i seguenti: «Esasperare i fascisti, spingendoli a reazioni sanguinose e inconsulte che avrebbero indubbiamente coinvolto molti innocenti seminando l’odio attorno al fascismo repubblicano; costringere gli antifascisti non comunisti ad accettare la lotta sul piano dello scontro armato finendo così con l’affiancare l’iniziativa dell’organizzazione rossa. Questa impostazione – continua Pisanò – diede i suoi frutti: i comunisti giunsero a controllare direttamente l’80 per cento di tutto lo schieramento partigiano e, salvo rare eccezioni, a imporrre la loro volontà alle altre formazioni sia in campo politico sia in campo militare».
A lungo al lavoro di Pisanò non è stata riconosciuta alcuna dignità storica (anche se lui stesso non si definiva uno storico ma solo un giornalista che si sentiva in dovere di narrare fatti realmente accaduti). È stato Pansa, nei suoi scritti, a riconoscere che la tesi di Pisanò aveva un fondamento più che legittimo: «Il primo ad avere affermato questa verità – scrive Pansa – è stato un giornalista fascista che aveva combattuto per la Repubblica sociale: Giorgio Pisanò. Ci scrisse un libro uscito nel 1962: Sangue chiama sangue, ripubblicato nel 2005 da una casa editrice di Bologna, Lo Scarabeo. La prima edizione l’avevo letta quando facevo il giornalista da poco tempo. E oggi ho l’obbligo di dire che Pisanò aveva visto giusto».
Il libro Sangue chiama sangue fu preceduto da una serie di inchieste dello stesso autore pubblicate su Gente e che suscitarono le rabbiose reazioni della sinistra, anche se “nessuno però fu in grado di smentire o di rettificare, sia pure parzialmente quanto andavo scrivendo».
Dunque ecco il racconto del modo in cui Giorgio Pisanò venne a conoscenza del «sangue dei vinti»: «Per sei mesi consecutivi, sistematicamente, battei zona per zona, città per città, tutte le regioni del Nord e della Toscana, vale a dire i territori dove maggiormente era infuriata la lotta fratricida. Mi procurai gli elenchi di tutti i caduti partigiani, visitai decine di biblioteche ricostruendo, sulla scorta della approssimativa documentazione resistenzialista, lo svolgimento della guerra civile nelle singole province. Poi, a mano a mano, controllai ogni notizia. Consultai gli archivi degli avvocati che avevano trattato processi politici nel dopoguerra… Interrogai numerosissimi parroci che mi furono larghi di preziose informazioni. Andai soprattutto alla ricerca di testimoni e di superstiti. Avvicinai centinaia e centinaia di persone, di ogni fede politica. Salvo rare eccezioni trovai dovunque persone ben disposte ad agevolare le mie indagini: molte con timore, ma molte altre con un senso di liberazione, felici di poter confidare finalmente dei penosi segreti e delle atroci verità di cui erano state a lungo depositarie. Anche molti capi dell’una o dell’altra barricata accettarono di incontrarsi con me. Di ogni avvenimento cercai accanitamente di identificare le cause. Specie per quanto riguardava le sanguinose e spietate rappresaglie compiute dai tedeschi o dai fascisti: e debbo dire che fu proprio indagando in questo settore che feci le scoperte più sconvolgenti. Ogni notizia venne da me controllata almeno due volte: arrivai a contare le croci nei cimiteri per stabilire il numero delle vittime di determinati episodi di guerriglia».
Quei morti di cui raccontava Pisanò sono, e restano, come i “morti sconosciuti” di Cesare Pavese. Ci interrogano ancora, nella gironata del 25 aprile. «Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».