Tecnici: senza politica no party
Il principio costituente del governo Monti era che la politica – leggi il Parlamento – non fosse in grado di portare a termine le riforme indispensabili per salvare l’Italia (vuoi per mancanza di coesione, vuoi per paura di perdere consenso). Un esecutivo tecnico, al contrario, che secondo le parole stesse di Monti non doveva poi andarsi a sottoporre al giudizio degli elettori, poteva permettersi di fare riforme dolorose ma necessarie. Nessuno scempio ci è stato risparmiato per convincere i cittadini che le cose stavano così e che quindi la tanto citata “sospensione della democrazia” fosse inevitabile o addirittura benvenuta. La vicenda Marò ha chiarito che il fatto che uno sia un eccellente diplomatico non comporta che debba per forza saper fare politica estera. Il papocchio del decreto liberalizzazioni mancante di appropriate copertura e in parte bocciato dalla Ragioneria dello Stato (ma che passerà comunque con la fiducia) è un altro esempio che la politica non si improvvisa. E la responsabilità di firmare una legge priva di coperture se la dovrà prendere proprio Napolitano, grande sponsor del governo tecnico. E infine arriva il flop del lavoro. Doveva essere la madre di tutte le riforme, l’unica che la politica davvero non aveva la forza di fare, ostaggio com’era dei sindacati. Monti avrebbe mostrato su quel tavolo tutta la sua incisività. Invece dovrà chiedere al Parlamento di coprirgli le spalle o passare la palla. Quando si dice: “i nodi vengono al pettine”.