Pd in ginocchio: prende schiaffi e si arrende

22 Mar 2012 21:00 - di

Ore e ore a cercare una via d’uscita, corse affannate, comunicati stampa di fuoco, telefonate, contatti, tentativi di metterci una pezza, «dobbiamo salvare la faccia», «non potete trattarci così». I vertici del Pd, nel giorno della consultazione decisiva governo-sindacati, sgomitavano, sudavano freddo, chiedevano un compromesso qualsiasi, una modifica forte da poter poi rivendere con i militanti, «alla fine abbiamo cambiato tutto», «vedete, abbiamo vinto noi». Niente da fare, con il testo sul lavoro non sono possibili i giochetti, almeno per adesso. Oggi si saprà tutto, riga dopo riga, parola dopo parola. Monti scioglierà i nodi, chiarirà con quale strumento legislativo andrà avanti. E al Pd non resta che sperare nella notte, magari il premier ci ripensa e offre una soluzione politica. Perché, dopo un pomeriggio e una serata a tirare la corda, i “democratici” si sono trovati in ginocchio, hanno perso dignità politica e si sono beccati pure un bel ceffone in pieno viso. Umiliante per chi credeva, solo qualche mese fa, di avere tutto nelle mani, di aver cacciato il tiranno e di poter muovere mani e piedi dei ministri tecnici come al teatro dei burattini. Bersani è alle corde, come un pugile suonato. E alla fine si arrende: «Non è il caso di staccare la spina al governo».

L’allarme viene dato subito
«Se collassa il Pd collassa il governo». È Enrico Letta, avanguardia dei democratici che hanno deciso di dire comunque sì all’accordo sul mercato del lavoro, a farsi interprete del disagio che in questi giorni sta investendo il partito di Pier Luigi Bersani. Parla al Financial Times e tira le somme di tutto quanto si va agitando a sinistra, dopo che la Cgil ha deciso di rompere il fronte sindacale e di mobiltare la piazza contro la proposta Fornero. La preoccupazione maggiore non è né l’articolo 18 né le tutele dei lavoratori, ma la preoccupazione che il Pd possa aver perso la faccia e con essa i rapporti con la base, rappresentata in primis dalla Cgil. Il sindacato di una volta non c’è più, ma la cinghia di trasmissione, tanto cara ai tempi di Luciano Lama ed Enrico Berlunguer, in qualche modo continua a funzionare. Ecco perché la rottura con la Cgil mette paura.

Prigionieri della Fiom
Il partito di Bersani ha finito per trovarsi prigioniero della Fiom e della sua ideologa operaista. Non è un caso se ieri, in concomitanza con l’ultima tornata di trattative, nelle fabbriche sono iniziate le proteste targate Corso d’Italia. Il tutto mentre su Facebook montava la rabbia. «Staccate la spina la governo Monti», scrivevano in molti rivolti al vertice del Pd, diviso tra chi, come Enrico Letta, ritiene che alla fine si debba comunque votare sì e chi invece, come Stefano Fassina, appare più probabilista, anche per non perdere i contatti con Sel e Idv. La Camusso, non avendo avuto la forza di dire di no alla Fiom, ha finito per mettere nei guai Bersani. Uscirne non sarà facile. Per questo il leader dei democratici, alla vigilia dell’incontro di ieri a Palazzo Chigi, aveva deciso un profilo basso limitandosi a chiedere la legge delega in luogo del decreto e facendo capire che si sarebbe accontentato di poche modifiche nel corso del percorso parlamentare. Una dimostrazione in più che il problema principale è quello di salvare la faccia. Oltre che di non perdere la base elettorale.

Pressing su Monti
Così parte il pressing nei confronti di Monti. Bersani telefona al premier, poi investe della cosa Giorgio Napolitano. che riceve al Quirinale sia il premier che la Fornero. Sul tavolo c’è il tentativo di salvare il salvabile, con la richiesta che la riforma arrivi in Parlamento sotto forma di legge delega e non di decreto e con la necessità che anche per i licenzimenti economici, oltre che per quelli disciplinari, l’ultima parola sul reintegro spetti al giudice. Il premier capisce il dramma e tenta l’ultima mediazione. Per questo trasferisce l’incontro del pomeriggio da via Flavia, sede del ministero del Welfare, a Palazzo Chigi. Il tutto mentre Raffaele Bonanni fa sapere che si sta lavorando per cambiare la norma sui licenziamenti economici. L’illusione, però, dura appena lo spazio di qualche ora. Il presidente del Consiglio parla alle parti sociali copnvenute a Palazzo Chigi ed eslude la possibilità di reintegro su cui fin dalla mattinata si era adoperato il Pd in diretta telefonica con Corso d’Italia. Un vero e proprio schiaffo in faccia per Bersani e la Camusso. Piero Giarda, ministro dei Rapporti con il Parlamento, lavora di cesello per attutire l’impatto e fa sapere che sull’altro tema, quello dell’iter parlamentare, il rebus decreto o disegno di legge, sarà sciolto oggi dal Consiglio dei ministri.

Industriali in trincea

Il dibattito sui licenziamenti economici, tutto incentrato sul fatto che senza un qualche controllo gli industriali finiranno per mandare a casa chi vogliono, aveva già fatto inalberare la Confindustria. Da Viale dell’Astronomia avevano aperto un vero e proprio fuoco di sbarramento nei confronti dell’ipotesi di modifica rilevando che «chi pensa che si vogliono portare avanti licenziamenti di massa è ridicolo». Da qui la precisazione del premier: «Il governo – ha affermato – si impegna affinché il rischio abuso sull’articolo 18 non si verifichi perché è nostro dovere evitare discriminazioni con un minimo di attenzione nella stesura del provvedimento». Quelle dei democratici, quindi, sono argomentazioni senza fondamento. «Se il Pd vuole fare la riforma che ha in mente la Camusso – dice Angelino Alfano – vinca le elezioni, la faccia, e poi la spieghi alla gente». Nell’eventualità che Monti dia ascolto ai democratici, comunque, Alfano fa sapere che anche il Pdl farà le proprie rivendicazioni a beneficio delle piccole e medie imprese. Lo strumento della legge delega, dunque, aprirebbe più di un fronte e Monti l’ha capito bene.

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