Macché progressisti, ormai siamo tutti un po’ catastrofisti
«L’Uomo Moderno, io canto», scriveva Walt Whitman nel 1867. Un piccolo manifesto dell’individualismo, una carezza alla persona che ci si poteva permettere, a quel tempo e – soprattutto – in quei luoghi. «Canto … la semplice singola persona», esordiva con buona dose d’ottimismo. Nella possibilità, nella certezza di poter cantare l’America. Ancora, a quel tempo. Dopo (abbastanza dopo) venne Ezra Pound a dirci che la democrazia – quella democrazia, intesa come valore – non era futuro ma passato da dimenticare, anzi ostacolo da superare, matassa da «sbrogliare». «L’usurocrazia … si riserva la parola “democracy” per mascherare il controllo che è attualmente nelle mani degli usurocrati», scriveva nel 1940. Da più parti spuntavano inni all’uomo nuovo… in mezzo c’erano state la Grande guerra, la crisi del ’29, Hitler, Mussolini, Stalin e l’inizio della Seconda guerra mondiale. Nel mezzo c’era stata anche quella lunga parentesi di scetticismo che non avrebbe mai abbandonato le sponde dell’Occidente. Perché, secondo Oswald Spengler era proprio quell’Occidente ad essere in crisi.
Tutta colpa di? Di Nietzsche secondo alcuni. Pier Aldo Rovatti ha scritto che dopo Nietzsche, morto nel 1900, è in atto un cambiamento radicale. «Viene meno un’idea di verità, quella che aveva tenuto insieme la filosofia dai greci fino alla modernità». Non proprio roba da nulla. E dunque si dovrà cominciare a fare i conti con qualcosa di nuovo. Dopo vari tentativi e qualche “furto di terminologie” qualcuno appiccica (e riappiccica) i termini di postmoderno o di nichilismo, qualcun altro continua a utilizzare il vecchio termine moderno con accezione ultranegativa. Cambia poco. La depressione «fungo velenoso che spunta dove e quando vuole» (così, poco tempo fa, Guido Ceronetti), s’attacca all’uomo e alle civiltà spengleriane. Come s’ammalano gli uni si ammalano dunque anche le altre.
La riflessione è d’obbligo a un anno dallo tsunami che travolse l’11 marzo 2011 il nordest del Giappone provocando danni irreparabili alla centrale nucleare di Fukushima. Un evento che ha globalizzato ansie e paure costringendo non solo i filosofi ma anche l’uomo comune a fare i conti con la "società del rischio", condizione amibigua e minacciosa della contemporaneità.
Facciamo i conti con questo po’ po’ di storia. E scontiamo le sofferenze di un mondo globalizzato che richiama costantemente la nostra attenzione. La Belle epoque è passata di moda e il capitolo di Noi che ricorda la nostra condizione, è quello abbastanza miserello del crollo dell’impero. I “barbari” questa volta sono qui, a due passi da casa, a contatto di gomito: nessun Capitano Drogo pensi di vivere nel deserto dei Tartari, al di qua di una linea che ci divide da un altrettanto misterioso nemico: quella linea (e forse perfino quel nemico) non esistono più. Alzi la mano, d’altra parte, chi trova in tasca l’alternativa alla modernità: libercoli o articoli a parte (senza basi concrete o nostalgici dei “bei” tempi passati), l’orizzonte è piatto come il mare d’estate e la mancanza di soluzioni alle crisi, certe e “definitive”, ci convince, per dirla con lo storico Giuseppe Galasso, che «la modernità non ha alternative nel suo tempo».
«C’era una volta il mondo premoderno», scriveva il 16 settembre scorso Galasso, «fatto di forti certezze di antica sedimentazione quanto a valori morali e comunitari, a relazioni umane e sociali, a scansioni del tempo e delle stagioni, a pratiche produttive e mercantili, a senso della vita e della morte, e a tanti altri fisici e metafisici connotati della realtà e della vita. Eccoci, invece, col moderno, in un mondo dai connotati opposti: relativismo, incertezze, insicurezze e simile compagnia cantante di un vissuto oscillante per lo più tra alienazione e angoscia, ma anche tra altri dilemmi non meno laceranti, senza regole condivise nell’atteggiarsi e comportarsi». Discorso vecchio come il cucco (Galasso lo sa bene), che lascia spazio alla facile ironia: gli antimoderni – parliamo degli opinion leader naturalmente, gli altri sono solo scolari disattenti – disegnano il nemico in maniera da far splendere i pregi di un mondo alternativo (che però resta indeterminato), un Eden botticelliano dove armonia e bellezza si danno ininterrottamente la mano. In questo mondo e in questo modo, le ragioni per le quali è nato il moderno (le libertà, in primo luogo) vengono esaminate come macchie incancellabili o come terribili malanni (fa lo stesso). È un discorso che va avanti da decenni e che un secolo fa, com’è noto, trovò anche “legittimazione” politica. Com’è che la malattia del totalitarismo e le dittature si impadronirono dell’Europa è però altrettanto noto, a tutti…
Eppure il problema esiste, e non lo si può nascondere. Nonostante gli antimoderni siano sovente dei pessimi avvocati delle loro (nobili) cause. Per riprendere Galasso, naturalmente a un certo punto la modernità «era stata posta in dubbio e guardata con crescente diffidenza, fino ad apparire tanto equivoca e dannosa da essere spesso condannata e ripudiata». Qui il discorso torna ad estendersi. «La crisi dell’dea di progresso incubò e partorì la crisi dell’idea e del valore della storia … ben presto cominciò il cammino inverso: il mondo va avanti e peggiora … Il progresso tecnico e scientifico appare letale e inaccettabile per poco che ci si allontani dalla naturalità non solo dell’uomo, ma per tutta la realtà». Nodi eternamente al pettine delle società contemporanee. Non si tratta più della tipica fiducia illuministica nel progresso dell’uomo e della società insieme, ma di qualcosa di diverso che, tuttavia, è parte integrante della stessa modernità. Perché se è giusto osservare che l’idea di progresso è in crisi, è altrettanto giusto e onesto osservare che nessun’altra formula è mai riuscita a scalzare i fondamenti illuministi. La maggior parte delle teorie cicliche rimane, tuttora, confinata nel filosofismo, nella metafisica e nella sparata bella e buona e, tanto per citare il pragmatismo americano, nessuna “verità” alternativa si è imposta, a posteriori, sulle altre “verità”, chiamate a rispondere di non pochi misfatti. Insomma, crisi del progresso, crisi della modernità ma entro i confini (peraltro sempre più incerti) della stessa modernità e dello stesso progresso, che pare non se ne vogliano più andare via…
Da questo punto di vista, dubbi e insicurezze sull’effettiva utilità o danno di qualsiasi innovazione non interessano affatto il progresso, ma sono questioni che riguardano dall’interno il progresso stesso. Sono cioè opzioni diverse all’interno di una stessa “filosofia”. Non si tratta di scegliere fra vita e morte del progresso, ma su forme alternative dello stesso. Progresso consapevole dei rapporti costi/benefici, in primo luogo e forme di progresso non esclusivamente tecnologico, in secondo. Il rispetto per l’ambiente e per l’uomo rimangono così due capitoli fondamentali nel grande libro del progresso. Dopo il disastro atomico di Fukushima, in Giappone, per esempio, gran parte dei Paesi industrializzati – in Italia, si è svolto un apposito referendum – si son chiesti se fosse opportuno coltivare idee e prassi relative al nucleare. La scelta, attualmente, sembra premiare in Germania e in Italia (dove però la popolazione è come al solito spaccata in due), un certo scetticismo, ma non in Francia e soprattutto negli Stati Uniti. Naturalmente, la scommessa sul futuro sarà anche quella sugli investimenti per forme di energia alternativa (che comporteranno a loro volta costi, scelte e divisioni politiche), e certamente non su una fase di miope deindustrializzazione.
Ma, mutatis mutandis, si ripresenta la questione alla quale si interessò Pier Paolo Pasolini circa lo «sviluppo» e il «progresso». Il progresso è per i poveri, per i lavoratori o (aggiungiamo) per chi vive situazioni di svantaggio o nella precarietà; lo sviluppo per chi ha interessi economici cioè per la borghesia o per chi gestisce il potere. Categorie che si potrebbero riutilizzare per porre in chiaro una questione. Il progresso è un concetto vasto che riguarda anche il benessere e la qualità della vita, lo sviluppo può essere abbinato per la maggiore agli interessi di un certo numero di affaristi o investitori. Che guardano esclusivamente al profitto o ai vantaggi economici, relegando in secondo piano tutto il resto. La questione attualissima del cantiere della Tav, può essere naturalmente collocata anche all’interno di questo schema. Profitto versus utilità. Sviluppo versus sicurezza. E così via.
Diverso commento merita, invece, una tendenza anch’essa di contrasto alla modernità (e dunque tipicamente moderna) che poco o nulla a che a fare col progresso e che anzi quel progresso cerca di negarlo in toto. Si tratta di una sorta di sindrome dell’accerchiamento, di un’attrazione puramente irrazionale per le angosce, per le catastrofi prossime venture; di un pensiero ultranegativo che si attacca come una sorta di virus a qualunque cosa abbia la sventura di esistere. Ed è bene non confondere dei “semplici” negatori di verità o degli scettici dalla prosa affascinante con chi si aggrappa all’immaginazione – seppur con notevole originalità – per tentare di guarire da una realtà che lo ha inesorabilmente sconfitto. Né René Guénon, né Emil Cioran che si leggono ancora oggi con estremo piacere, ma Howard Phillips Lovecraft può essere considerato un esponente tipico di questa tendenza, colui che per citare Gianni Pilo e Sebastiano Fusco «metamorfosizza le sue fobie facendone altrettante oscene divinità di un pantheon dell’orrore e dell’assurdo, entità grottesche e ripugnanti, esalazioni miasmatiche di un Altrove nel quale fermentano tutte le abominazioni». Un autore che per dirla ancora con Michel Houellebecq vive una vita «fuori dalla realtà», ed è addirittura un «masochista»; un autore che viene sovente fatto oggetto di uno strano culto come se dalla lettura dei suoi libri sbucasse fuori – come desiderata illuminazione – chissà quale mirabolante certezza.
Se declinata in codesta maniera, l’opposizione alla realtà perfino nelle forme più ribelli, si trasforma in un incubo che prelude a una caccia al nemico – sovente, per fortuna, immaginario – senza possibilità di tregua, né d’altro canto di vittoria. Lovecraft ha detto che la modernità può essere attesa di distruzione, senza ombra di luce, Whitman invece ci pone a contatto con la luce: «Io sono dei giovani e dei vecchi, degli stolti e dei saggi, / Incurante degli altri, riguardoso di tutti, / Materno quanto paterno, bambino quanto adulto, / Imbottito di volgarità, ripieno di delicatezza, / Uno della Nazione di molte nazioni, delle più piccole e delle più grandi». Spetta a noi decidere a chi prestar fede. Esiste un’epica della modernità, ed esiste un’epica dell’antimodernità. Scegliamo solo tonalità e colore.