Il Salva-Italia di Monti avrà (forse) salvato l’Italia, ma ha “ucciso” gli italiani
Prima il “Salva Italia”, poi il “Cresci Italia”, poi ancora tutti i provvedimenti-slogan di Monti, gli spot della stampa di peso (appiattita sul governo tecnico), i viaggi all’estero con tanto di applausi e complimenti, quasi fosse una lunga festa di compleanno, gli elogi di Obama, di Sarkozy, della Merkel. Alla gente comune, quella che la mattina prende un caffè al bar per poi tuffarsi in una giornata di lavoro, sembrava si aprissero le porte di un nuovo miracolo economico. Ma alla fine, guardando il portafogli, ci si è resi conto che l’Italia si sarà pure salvata, ma sono stati ammazzati gli italiani. Le lacrime della Fornero erano una sorta di avvertimento, qui le cose si mettono male. E infatti – non solo per le pensioni – c’è la certezza che a pagare il prezzo più salato siano stati i soliti noti: la benzina è aumentata trascinando con sé una coda infinita di aumenti. «E io pago», è il commento alla Totò di un qualsiasi impiegato. In più, ci sono le parole del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha annunciato: «Si lavori di più, in più e più a lungo». Come prospettiva, niente male. La benzina arrivata al prezzo di due euro al litro è sufficiente da sola a far capire quello che sta succedendo in questi mesi al bilanci delle famiglie italiane. Il decreto “salva Italia”, le pensioni, le liberalizzazioni, le semplificazioni e tutto il resto e, alla fine, quando si tirano le somme, si scopre che siamo tutti più poveri.
Una stangata dietro l’altra
Il paese non cresce, i disoccupati sono aumentati e le tasse hanno fatto la parte del leone. Mario Monti avrà pure salvato l’Italia ma, come detto, ha sicuramente ammazzato gli italiani. Marzo, poi, sarà un mese davvero difficile, perché approda in busta paga la stangata delle addizionali regionali (retroattive al primo gennaio 2011) e comunali. Più avanti, poi, arriverà anche l’Imu. A ogni bolletta della Tarsu veniamo chiamati a pagare sempre di più. Eravamo stati facili profeti qualche mese fa quando, di fronte all’aumento delle accise che hanno fatto ripartire i prezzi di benzina e gasolio, come Secolo d’Italia avevamo lanciato l’allarme sulle possibili ricadute del caro-carburanti in questo Paese dove l’80 per cento delle merci viaggia su gomma. Da questi rincari, scrivemmo allora, corriamo il rischio di non uscire se non in tempi lunghi. Perché a cascata arriveranno il caro-trasporti, l’inflazione, prezzi più salati per i prodotti alimentari, maggiori costi per l’agricoltura e per l’industria, bollette più salate, minore competitività rispetto alla concorrenza estera. Nostro malgrado dobbiamo affermare che siamo stati facili profeti. Cosa succederà adesso? Chi vivrà vedrà. Ma, intanto, per ottobre sono previsti due punti di Iva in più di cui nessuno sentiva il bisogno.
L’analisi del “governatore”
Finora, almeno dal dopoguerra a oggi, per le nuove generazioni e quasi sempre valsa la regola che ognuno poteva aspirare a fare un passettino in più, nella scala del benessere, rispetto ai genitori. I figli quasi sempre hanno finito per stare meglio dei genitori. Adesso, però, questa regola non scritta sembra essere saltata, complice il venir meno di molte certezze. Sempre Visco, al convegno sul ruolo delle donne a Palazzo Koch, ha rilevato che l’Italia, con il passare degli anni, «è diventato un Paese anziano». Ergo, il semplice «mantenimento del livello di vita raggiunto – aggiunge Visco – richiede che si innalzi l’intensità del capitale umano e riprenda a crescere la produttività totale dei fattori». Uno slogan? No, qualcosa di più. Per arrivare alla conclusione auspicata da Visco, infatti, bisogna mettere in piedi una vera e propria rivoluzione, rimuovendo ingessature, burocrazia, ostacoli di ogni genere che si frappongono a maggiori investimenti e al migliore utilizzo di risorse economiche e capitale umano. La spesa pubblica, ad esempio, va ridimensionata per evitare che inglobi la metà del Pil trasformandola in spesa parassitaria e clientelare e sottraendo risorse all’economia produttiva. Ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare. Abbiamo un debito pubblico di 1.900 miliardi di euro che è necessario finanziare per non portare il Paese alla bancarotta. E questo costituisce un punto fermo nella determinazione di ogni possibile politica espansiva, perché il semplice pagamento degli interessi, da corrispondere a chi possiede Bot e Btp, ci costa qualche cosa come 80 miliardi di euro l’anno.
La risorsa “donne”
Abbiamo pochi giovani e ci permettiamo anche il lusso di tenerli seduti in panchina. «Oltre due milioni – ha sottolineato Visco – non lavorano e non partecipano all’attività formativa. Di questi 1,2 milioni sono donne. E proprio le donne sono la maggioranza sia tra coloro che pur disponibili a lavorare non cercano attivamente un’attività di impiego, perché ritengono di non avere sufficienti probabilità di trovarlo, sia tra coloro che sono attivamente alla ricerca di un’occupazione». Un gap. Visco ha fatto il punto della situazione rilevando che «è necessario recuperare i divari rispetto alla partecipazione del mercato del lavoro femminile». Se si riuscirà a fare questo, sarà possibile «trasformare una grave debolezza in una straordinaria opportunità». Secondo Via Nazionale dobbiamo porci questo obiettivo, anche se non basterà fare questo per risolvere la questione. Le donne non lavorano anche perché mancano i servizi necessari a garantire loro, nell’età in cui mettono alla luce dei bambini, asili, mense e mezzi di sostegno all’infanzia. Poi, quando i figli sono cresciuti, spesso si è perso il contatto con il mondo del lavoro e trovare un’occupazione è diventato difficilissimo.
Il mercato del lavoro
La trattativa sul mercato del lavoro, che sta andando avanti da alcune settimane, tra sindacati, governo e imprese, la dice lunga sulle difficoltà che bisogna superare per mettere da parte quelle che Visco ha chiamato «le rendite di posizione e gli interessi particolari». Sono troppe le resistenze al cambiamento che si frappongono alla riforma di un mercato bloccato ancora sull’aspettatriva del “lavoro a vita” che oggi nessuno è più in grado di garantire. Certo è una questione di risorse a disposizione. Non si può pensare di riformare gli ammortizzatori sociali, soprattutto in un periodo di aspra crisi economica come questo, senza capire che tutto questo finirà per avere un costo. Così come non si può ostacolare sic et simpliciter ogni modifica dell’articolo 18, non rendendosi conto che in questa materia contano soprattutto le aspettative. E in presenza di aziende che si sono viste imporre dal giudice il reintegro in fabbrica del lavoratore licenziato, con tutto quello che ne consegue in termini di competenze, dopo cinque, sei e perfino sette anni è evidente che qualsiasi imprenditore, prima di assumere, si fa bene i conti. Dopo la flessibilità in entrata è quindi necessario garantire anche quella in uscita.