Finalmente una narrativa sull’Africa italiana
Il cinema Impero, il ristorante Mario, i caffè di piazza Garibaldi, l’albergo Savoia, l’hotel Torino… C’è stata un’epoca, neanche tanto lontana, in cui l’Africa era italiana. Tracce della nostra presenza ce ne sono ancora. Lo sviluppo urbanistico di intere regioni, del resto, è stato realizzato negli anni Trenta: strade, ponti, ferrovie, scuole, interi villaggi. Eppure del “sogno” africano, nato con Crispi e rivitalizzato dal fascismo, nel nostro immaginario non è rimasto granché. Una pagina di storia rimossa. Quel poco che ne trapela nei manuali, al di là delle altalenanti vicende belliche, ripropone i soliti luoghi comuni sul colonialismo predatorio, straccione e razzista. Le innumerevoli storie di tutti coloro che, spinti dalle motivazioni più diverse, raggiunsero il continente nero avrebbero potuto fornire straordinari spunti per più generazioni di registi e scrittori. Pochi, tuttavia, si sono avventurati su tale strada e non sempre cogliendo lo spirito del tempo.
A riuscirci è stato Giorgio Ballario, torinese della classe 1964, giornalista a La Stampa. Si deve anche a lui se, almeno in parte, tale epopea è stata recentemente riscoperta. Il suo Aldo Morosini, quarantenne maggiore dei Reali Carabinieri, è alla terza indagine africana. Dopo Morire è un attimo e Una donna di troppo (Angolo Manzoni Editore, 2008 e 2009) è appena giunto in libreria l’ultimo romazo della trilogia: Le rose di Axum, edito stavolta da Hobby & Work (pp. 235, € 18). Il maggiore – beniamino di molti lettori, su Facebook ne ha un gruppo “agguerritissimo” – dovrà vedersela con società esoteriche, ladri di tesori e un’affascinante spia nazista in un appassionante mix di episodi realmente avvenuti e fiction. Ad arricchire la trama pregevoli cameo: se nel precedente romanzo ci eravamo imbattuti in Rodolfo Graziani, nell’ultimo giallo entrano in scena Filippo Tommaso Marinetti e un giovanissimo Hugo Pratt, il futuro papà di Corto Maltese, la cui vocazione artistica nasce proprio in terra africana. Luoghi che in quegli anni erano per molti la terra promessa. Per la cultura italiana, però, sono dei desaparecidos. Il motivo lo abbiamo chiesto all’autore.
«Nella narrativa italiana c’è stato qualche personaggio “africano”, o meglio italiani in Africa: penso alla figura tormentata dell’ufficiale di Tempo di uccidere di Flaiano, al tenente-avvocato di Davide Longo in Un mattino a Irgalem, al carabiniere di Lucarelli in L’ottava vibrazione. Militari, ma assai diversi dal mio Morosini, intanto perché per loro l’Africa è solo una parentesi. Il protagonista de Le rose di Axum in Eritrea, invece, ci vive da alcuni anni e chissà per quanti altri ci dovrà rimanere. E poi, anche se la guerra è sempre sullo sfondo, nei miei romanzi il maggiore vive di più la realtà che lo circonda, le città costruite dagli italiani, la società coloniale. In questo senso la serialità del personaggio aiuta a creare delle condizioni di vita più familiari, anche per il lettore».
Perché proprio l’Africa italiana?
È una lunga storia, che affonda le sue radici in certi lontani racconti africani di parenti che c’erano stati, vuoi per la guerra, vuoi per lavoro e persino perché avevo una zia suora missionaria. L’Africa per me ha sempre rappresentato un mondo lontano e affascinante. Su questo si è innestato un discorso più storico su 50 anni di colonialismo italiano messo in naftalina dalla nostra cultura, sia “alta” che popolare. Solo negli ultimi anni, a parte la memorialistica di guerra, abbiamo avuto alcuni libri e un fumetto che trattavano di quest’argomento. Eppure almeno un terzo della nostra storia lo abbiamo trascorso da nazione colonialista, sia pure un po’ tardiva rispetto alle grandi potenze europee. Documentandomi su testi dell’epoca, mi sono reso conto che l’Africa italiana è la cornice ideale per un romanzo, soprattutto alla metà degli Anni Trenta, quando le colonie smettono di essere dei territori d’oltremare un po’ dimenticati dalla Madrepatria e diventano, sotto l’impulso del regime fascista e del progetto dell’impero, un grande laboratorio da un punto di vista sociale, economico, architettonico, culturale. In quegli anni l’Africa diventa “di moda” ed entra pienamente nell’immaginario collettivo degli italiani sotto forma di film, canzonette, cibi, annunci pubblicitari.
Chi erano gli italiani che andavano in Africa? Cosa li muoveva?
Per alcuni decenni nelle colonie africane ci andavano in prevalenza militari, funzionari pubblici, missionari, alcuni commercianti e imprenditori particolarmente intraprendenti. Con alcune eccezioni lodevoli – ad esempio l’esperimento agricolo industriale del Villaggio Duca degli Abruzzi, in Somalia, fondato nel 1920 – fino alla metà degli Anni Trenta le colonie italiane in Africa orientale erano luoghi abbastanza arretrati e sonnolenti, con un’economia che incideva molto poco sul bilancio nazionale. Poi, con la guerra all’Abissinia, la migrazione di coloni italiani diventa un fenomeno di massa: prima in Eritrea e Somalia, poi in Etiopia. Come ho scritto nei romanzi, dall’Italia affluiva una fiumana di giovani di belle speranze: padri di famiglia in cerca di un salario migliore, impiegati pubblici desiderosi di far carriera, militari ambiziosi o in punizione, commercianti dinamici e mercanti senza scrupoli, industriali geniali o con gli amici giusti a Roma, missionari coraggiosi e pretini incapaci, spediti a farsi le ossa in Africa. E ancora, avventurieri di ogni risma, sognatori romantici, universitari dei Guf sbarcati in Eritrea per rifondare l’Impero, teorici dell’uomo nuovo fascista e insegnanti precari alla caccia di una qualsiasi cattedra.
Cosa rappresentava l’Africa per gli Italiani?
Nell’immaginario degli italiani in Patria e dei coloni l’Africa rappresentava più o meno ciò che ha sempre rappresentato per i colonialisti europei: un Paese affascinante e misterioso, ricco di opportunità economiche ma anche in grado di offrire una vita diversa, avventurosa, intensa e libera, anche sessualmente, soprattutto se pensiamo a quant’era bigotto il nostro paese. È chiaro che nell’immaginario popolare di quel decennio le colonie rappresentavano una specie di frontiera, il nostro Far-West nel quale andare a cercare fortuna. Lo si capisce molto bene proprio dall’uso che la pubblicità faceva degli scenari africani: ogni occasione era buona per reclamizzare prodotti con l’immagine di un fiero ascaro, di una negretta seminuda, di un simpatico “moretto”, di cammelli, elefanti e tutta la serie dell’iconografia classica dell’Africa. C’era poi un registro più alto, adottato dal regime ma in qualche modo ben presente in gran parte della popolazione delle colonie, e cioè la “missione civilizzatrice” dell’Italia. Una formula dietro la quale si sono celate anche parecchie nefandezze, come in tutti i colonialismi, ma non solo uno slogan vuoto e retorico. Basta vedere anche oggi un gioiello architettonico e urbanistico come Asmara per capire che l’Italia fascista voleva davvero riprodurre in Africa la propria civiltà, a differenza di altri Paesi colonialisti che consideravano le proprie colonie come limoni da spremere. In Eritrea, la nostra colonia “primigenia”, questo aspetto viene ancor oggi riconosciuto dagli stessi eritrei.
L’auspicio è che la “saga” di Morosini non si esaurisca con la trilogia e, a giudicare dalla buona lena piemontese dell’autore, ci saranno altri romanzi in futuro. Ancora più bello sarebbe vedere trasformati questi originali “gialli coloniali” in tivù o sul grande schermo. Agli sceneggiatori rimarrebbe poco lavoro da fare: i romanzi di Ballario sono materia ideale per un film o, perché no?, per uno sceneggiato.