Casini rinnega l’amico Giulio e l’orgoglio Dc
È bastato nominare il Divo Giulio per far ritrovare brillantezza persino al vecchio cuore democristiano di Rosy Bindi. Ieri mattina, puntata di “Agorà” dedicata alle bizze asiatiche di Monti. Il conduttore, Andrea Vianello, ricostruisce le circostanze in cui Andreotti punzecchiò De Mita con quel «meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Era il 17 febbraio 1991, durante il convegno dei giovani amministratori della Democrazia cristiana, a Foligno. «Onorevole Bindi, lei c’era?», chiede il giornalista. L’esponente del Pd annuisce sorridendo, poi la butta lì: «C’eravamo tutti».
Pierferdy fa lo gnorri
Ma questa è un po’ la storia dell’Italia: nessuno è mai stato comunista, nessuno (per carità di Dio!) è mai stato fascista, ora scopriamo anche che quasi nessuno è stato democristiano. Eppure, come dice la Rosy, all’epoca c’erano tutti. Anche quel Pierferdinando Casini che in onore di una tetragona militanza montiana sembra essersi dimenticato di essere stato piuttosto organico al Caf, sia pur più legato alla “F” di Forlani che alla “A” di Andreotti. È un puro figlioccio dello scudocrociato, Casini, né ha mai fatto nulla per nasconderlo, presentandosi sempre come erede della tradizione diccì, tutt’al più con una coloritura più piaciona come massimo di originalità. Tutto questo fino all’era Monti, che ha visto Pierferdy fra i più entusiasti pasdaran dell’esperienza tecnica. Sarà stato per quell’atmosfera inciucista da larghe intese, per quel grigiore nei volti dei vecchi baroni prestati alla politica, per quel ritorno alla politica incorporea alla De Gasperi dopo gli eccessi del populismo carnale del Cav. Insomma, il leader dell’Udc sente aria di casa. E non si accorge che poi proprio il democristiano fra i democristiani, Giulio Andreotti, finisce per essere citato da Monti come esempio di cattiva politica redenta dalla sobrietà bocconiana. E infatti Pierferdy tace. Non protesta, neanche timidamente. Anzi, rilancia: «Per noi – dice – il governo deve continuare e l’appello che facciamo è lo stesso: serve senso di responsabilità dei partiti, delle parti sociali, di tutti coloro che vogliono salvare questo Paese». Insomma, il premier minaccia i partiti con fare vagamente ricattatorio, spiegando che una cosa tanto inutile come la politica non può permettersi di mettere i bastoni fra le ruote ai tecnici e proprio il politico di professione per eccellenza finisce per accodarsi, bacchettando chiunque creda di poter dire la sua disturbando gli illuminati al potere.
Democristiani e malpancisti
Ma non tutti, fra gli eredi della Balena bianca, hanno preso con la stessa sportività l’antiandreottismo di ritorno del premier. Anche se le voci fuori dal coro sono rare. «Purtroppo quando Monti fa riferimento ad Andreotti – ha spiegato il parlamentare del Pdl Antonio Mazzocchi – lo fa in maniera impropria dimostrando cosi di non conoscere il sano principio della mediazione». E ha aggiunto: «Governare e trasformare il Paese: questa è la vera mediazione. Quella nella quale Andreotti era maestro». Ma la stessa Bindi, proprio ad “Agorà”, ha spiegato che «quando si evoca Andreotti bisogna starci attenti. Sicuramente quella di Monti è un’eccellente scelta di comunicazione, ma consiglierei al Presidente del Consiglio di non abusarne perché il Parlamento non è il luogo della solitudine del governo ma è il luogo della sovranità democratica». Piccato anche il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda: «Trovo infelice e fuori luogo il riferimento di Monti al presidente Andreotti. È una battuta che mi ha molto stupito, di cui mi sfugge l’utilità e che chiama in causa Giulio Andreotti, senatore a vita proprio come Mario Monti. Insomma, una caduta di stile inaspettata». Curiosamente, l’ex esponente della Margherita finisce per rispondere esattamente come fece, venti anni fa, Bettino Craxi. In una tribuna politica, poche settimane dopo la boutade di Andreotti contro De Mita, il leader socialista la definì «una battuta non felicissima», spiegando che «è meglio che la legislatura ci lasci, ne nascerà un’altra nuova di zecca, che probabilmente sarà più utile di una legislatura morente e che tira a campare».
Andreottismi
In tutto questo, resta il fatto che Andreotti, nonostante l’età avanzata e una presenza mediatica sempre più rada fin quasi alla sparizione dagli schermi, continua a essere centrale nell’immaginario politico (e non solo) di questo Paese. Andreotti non è un protagonista della Prima Repubblica, è la Prima Repubblica. I motivi sono vari: una grande cultura politica, una furbizia e un machiavellismo quasi proverbiali, una fisicità dimessa ma insinuante, che non passa inosservata. Nessuno, nella storia d’Italia, è durato tanto come lui: è sempre stato presente dal 1945 in avanti nelle assemblee legislative italiane, dalla Consulta Nazionale all’Assemblea costituente, e poi in Parlamento, dove tuttora ricopre il ruolo di senatore a vita. E stato sette volte presidente del Consiglio e varie volte ministro della Difesa, degli Esteri, delle Partecipazioni Statali, delle Finanze, del Bilancio, dell’Industria, del Tesoro, dell’Interno, dei Beni culturali e delle Politiche Comunitarie. Un curriculum eccezionale e che tuttavia non racchiude totalmente la centralità dell’andreottismo e il suo radicamento nell’immaginario collettivo. Dalle mille imitazioni (da Alighiero Noschese a Oreste Lionello) al suo cammeo ne Il Tassinaro di Sordi, dall’acido omaggio di Sorrentino con Il Divo («Una mascalzonata», commenterà lui) al cartone che porta il suo nome firmato da Mario Verger, Andreotti non ha cessato di marchiare lo spirito del tempo. Baccini gli dedicò persino un brano, ergendosi a difensore di quello che veniva chiamato Belzebù: «Chi ha mangiato la torta? / Andreotti! / Chi ha permesso il calo della borsa? / Andreotti! / Ma lasciatelo stare, poverino / questo dargli addosso è / assurdo e cretino». Nato che era appena finita la Prima Guerra Mondiale, ancora oggi il suo nome spopola su Twitter e i suoi filmati – compreso quello un po’ crudele del malore che lo colse durante una diretta tv – su YouTube. Persino la sua vicenda giudiziaria bucherà la routine delle accuse incrociate per diventare pop, con la storia del presunto bacio tra lui e Riina. Ad alimentare questa dimensione iconica ha certamente contribuito il senso andreottiano per la battuta fulminante, a cominciare dal famoso «il potere logora chi non ce l’ha» che finirà persino nel Padrino III fino, appunto, alla sentenza sul «tirare a campare». Eppure tale popolarità arriva proprio a dispetto del suo mai essere sopra le righe. Di lui ha scritto Enzo Biagi:«Non credo che nessuno lo abbia mai sentito gridare, né visto in preda all’agitazione […]. È capace di passare un pomeriggio giocando a carte, e l’attrice che preferiva, in gioventù, era la bionda Carole Lombard, colleziona campanelli e francobolli del 1870». Non ditelo a Monti, ma sembra quasi che stiano parlando di lui.