La Fornero come Stallone: braccio di ferro sull’art. 18
Non ci sono camionisti ma leader sindacali, industriali e ministri. Il tavolo non è quello delle botteghe della periferia americana ma quello di Palazzo Chigi. Non c’è Sylvester Stallone, al suo posto c’è la Fornero, ma l’aria che si respira è da Over the top, con le sfide a braccio di ferro che impazzano (almeno così vogliono far credere). L’unica modifica alla trama del film è la ricerca continua di un compromesso, che renderebbe la vita più facile al governo e alla Cgil, evitando le manifestazioni di piazza. Finalmente il governo ha messo le carte in tavola. Monti e la “ministra” intendono modernizzare il mercato del lavoro attraverso il riordino dei contratti e la flessibilità in entrata ma anche in uscita. Tradotto dal politichese, significa che anche l’articolo 18 è una materia che si intende affrontare. Degli ammortizzatori sociali, invece, si parlerà più avanti. Ieri, infatti, nell’incontro tra sindacati, Confindustria e governo (le parti si rivedranno lunedì), è stato deciso che per ora rimarranno in stand by e se ne discuterà da qui a non meno di 18 mesi. «Se siamo interessati a una buona riforma – ha detto la Emma Marcegaglia – i presupposti ci sono tutti». Si riparte con il piede giusto? A prima vista sembrerebbe di sì. Ma se poi si ascoltano le dichiarazioni dei partecipanti al tavolo si capisce che ognuno continua a suonare il proprio strumento.
Fornero a carte scoperte
Il ministro del Welfare continua a fare il pompiere. Adesso, però, almeno si capisce di che cosa parla. «Non è un prendere o lasciare», ha detto ieri, ma poi ha subordinato tutto alla trattazione del tema della «flessibilità in uscita». E se la Cgil non accetterà di discuterne? Su questo argomento sia la Fornero che Monti si sono ripetuti più volte: alla fine il governo andrà comunque per la sua strada. Premesse che introducono il tema delle possibili compensazioni di cui, almeno per il momento, ancora non si è parlato. Anche se si capisce molto bene che la Cgil fa la voce grossa proprio per alzare il prezzo. Gli incontri alla luce del sole e soprattutto quelli più o meno clandestini almeno questo lo hanno fatto capire. Su alcune questioni le distanze appaiono relative. Si veda, ad esempio, l’apprendistato che per il ministro del Welfare rappresenta «la scommessa per vincere». Sindacati e Confindustria concordano sull’opportunità di rafforzarlo e il governo non dice di no. «E stato usato come veicolo di flessibilità, ma in realtà – sostiene la Fornero – è veicolo di formazione. Dobbiamo essere severissimi, nessuna tolleranza sul suo uso improprio. È una forma tipica di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani in quanto strumento per fare formazione professionale seria». Così si fa «piazza pulita – sottolinea Bonanni – di tutta quella letteratura deviata che ha fatto il bello e il cattivo tempo». E «controlli e sanzioni» vengono annunciati anche come contrasto all’uso improprio della flessibilità. Il nemico comune sono «le troppe partite Iva». «Occorre anche evitare la discontinuità e che – sostiene la Fornero – migliaia di lavoratori finiscano in nero».
Camusso inossidabile
La segretaria generale della Cgil richiesta di commentare le novità si è limitata a dire che che prima di ieri il governo faceva l’elenco delle cose da fare e poi avveniva che sarebbe comunque andato avanti adesso, invece, ha messo sul tavolo le proprie idee e su queste ha detto che intende confrontarsi. Siamo quindi, secondo la sindacalista alle fasi propedeutiche di un «negoziato effettivo». Allora tutto tranquillo? Manco per niente. «Per noi – ha sottolineato la Camusso – non c’è un tema che si chiama articolo 18». Un’affermazione che riporta i termini della questione all’inizio del dibattito di questi mesi. Si deve o non si deve intervenire sull’articolo 18. Per Marcegaglia non ci sono dubbi in merito l’articolo 18 è tra le cose che l’esecutivo ha messo sul tavolo. La Fornero si limita a dire che non ci sono aut aut e Raffaele Bonanni afferma di concordare con il governo sull’opportunità di porre il tema dei licenziamenti e del reintegro in azienda su istanza del giudice in coda alle cose da trattare. «Se noi ci poniamo – ha aggiunto – con l’atteggiamento di chi non vuole discutere su niente otterremo solo il fatto che alla fine ci penserà il governo. Come già fatto con le pensioni che sono state modificate senza nessun filtro». L’articolo 18, perciò, sarà affrontato quando molti dei sassolini che ingombrano la strada saranno stati rimossi. E la Camusso farebbe bene a smetterla di giocare a rimpiattino.
Cambio di passo
Dopo le molte schermaglie siamo al cambio di passo in un confronto che, dalle impostazioni generali, passa ai temi concreti che verranno affrontati a partire da lunedì prossimo. L’obiettivo è quello di arrivare a definire una riforma che serva a creare occupazione non a distruggerla. I problemi sul tappeto sono più d’uno. Il mondo del lavoro italiano è attualmente caratterizzato dall’esistenza di una vera e propria apartheid, con lavoratori protetti e lavoratori che non lo sono affatto (chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti). Poi c’è la crisi di produttività, dovuta ad una serie di cose tra cui la cattiva valorizzazione del capitale umano (spesso si fa carriera per anzianità). Infine il problema dei licenziamenti. I sindacati fanno presente che nei casi di ristrutturazione aziendale viene fatto già, e questo è vero. Ma la stranezza è costituita dal fatto che non lo si possa fare per merito: si provi a mandare via un dipendente assenteista, ad esempio, e 99 volte su cento il giudice lo reintegra. Tra l’altro, c’è anche un problema legato alla lentezza della giustizia civile: talvolta si aspetta anni prima della pronuncia del giudice e questo significa la mancanza di certezze sul fronte dei bilanci e degli addetti. Un argomento, quest’ultimo, che scoraggia gli investimenti esteri e relega l’Italia agli ultimi posti in Europa (dopo di noi c’è solo la Grecia) per attrattiva nei confronti delle aziende che delocalizzano le loro produzioni. A fine 2011 lo stock totale di investimenti stranieri in Italia valeva 337 miliardi di dollari, contro i 614 della Spagna, i 674 della Germania, i mille della Francia e i 1.100 del Regno Unito. A scoraggiare è la rigidità del mercato del lavoro (secondo il Wall Street Journal l’articolo 18 ci costa più del debito pubblico), ma anche l’inaffidabilità delle procedure amministrative. Permessi, burocrazia, regole incerte e un fisco esoso fanno scappare a gambe levate chi si azzarda a manifestare l’intenzione di fare impresa nel nostro Paese. Così, soltanto nel 2011, gli investimenti diretti esteri in Italia hanno subito una flessione del 53 per cento.