Perché adesso non lasciamo in pace i morti?

13 Gen 2012 20:12 - di

Lo ha ammesso, senza remore, lui stesso: «Una mia battuta sicuramente di cattivo gusto, rubata sul profilo personale e non negli spazi ufficiali del movimento in barba a ogni tutela della privacy, scatena l’ira dei novelli inquisitori». Gianluca Iannone, leader di Casapound, è intervenuto così qualche ora dopo il suo commento pubblicato sulla bacheca personale di facebook nella quale si dava la notizia della scomparsa del giudice romano Pietro Saviotti: «Il 2012 si apre con prospettive interessanti… Evviva». Sicuramente, come ha spiegato lo stesso Iannone (che ieri ha subito una perquisizione domiciliare della polizia in seno alle indagini sul ferimento dell’ex Nar Francesco Bianco per il quale è “persona informata dei fatti”), un gesto infelice e inopportuno che non a caso ha scatenato polemiche a non finire e causato l’apertuta di un fascicolo per istigazione a delinquere.
Un caso isolato? L’esatto contrario. Il punto, anzi, è proprio questo: come mai solo adesso la “grande” stampa o la politica dei piani alti abbiano scoperto il malcostume dell’esultanza sui morti con tanto di indignazione. Un malcostume che nel nostro Paese si ripresenta puntualmente ogni qualvolta si ha a che fare con la scomparsa di personalità politiche o legate ad alcuni episodi tragici della storia. Prendiamo un esempio di appena qualche giorno fa: il trentaquattresimo anniversario della strage di Acca Larenzia. Bene, sui muri della città (da Milano a Palermo), sui forum della sinistra antagonista e durante il sit-in di protesta organizzato dai centri sociali si è registrato lo stesso, infame, slogan: «10, 100, 1000 Acca Larenzia». Una macabra invocazione che fa a pugni con il più elementare buon senso, dato che trattasi di tre ragazzini appena maggiorenni uccisi dall’odio politico e da una pistola delle forze dell’ordine. Ma del resto questo stesso motivetto si è sentito anche in diversi cortei della sinistra antagonista rispetto ai ragazzi italiani morti in Iraq nel 2003, declinato “a tema”: «10, 100, 1000 Nassiryia». I “sinceri” democratici non si sono risparmiati nemmeno con la recente scomparsa di un politico corretto e stimato trasversalmente come Mirko Tremaglia. Bastava, anche qui, fare un giro sulle bacheche internet (facilmente riscontrabili su google) per leggere commenti del tipo: «Altro ragazzo di Salò! Andiamo!», oppure «Una merda in meno… Chi è il prossimo tra quei furfanti? Spero tanto che sia Berlusconi e tutta quella marmaglia di mafiosi…». Non c’è che dire, espressioni – queste dedicate alle vittime dell’antifascismo e un anziano combattente impegnato fin da bambino in politica – che testimoniano il livello che si registra in determinati ambienti quando si ha a che fare con la morte.
E se gli esempi di Acca Larenzia e Tremaglia possono toccare le corde stonate di qualche nostalgico della stagione dell’odio, anche la scomparsa di personaggi non legati all’impegno politico scatena la stessa corsa allo sciacallaggio. E qui i “sobri” terzopolisti del Futurista non sono stati da meno. Bastava girare sulle (ormai celebri) pagine facebook di alcuni vertici del settimanale per registrare come si “brindava” alla morte di Don Verzè al grido di: «Botti di fine anno, è morto Don Verzè» a commento dell’articolo. E che dire, a proposito di giornali, della sinistra in cachemere? Sull’Unità, in prima pagina, il 12 ottobre 2008, giorno della morte di Jorg Haider si leggeva la seguente lettera: «Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è “soddisfazione”, ma onestamente le somiglia». Non c’è che dire, molto “minimal” e british come epitaffio.
Stesso tono, poi, le “congratulazioni” che si sono registrate per la morte di Muhammar Gheddafi; le immagini del raìs libico tumefatto e sfigurato hanno scatenato le grida “splatter” di giubilo non solo dei suoi esecutori ma anche degli smanettoni telematici di mezzo mondo. Ovviamente c’è stato anche chi ha invocato la chiusura di una fantomatica “triade”: «Dopo Bin Laden e Gheddafi, a quando Berlusconi?». Già, la tipica sindrome da piazzale Loreto che si ripresenta come scorciatoia per chi è incapace di considerare l’avversario se non come un ostacolo da abbattere.
Insomma, tra “brindisi” e “soddisfazioni” per la scomparsa di sacerdoti (per quanto discussi) e politici (per quanto al centro di polemiche), tra slogan che inneggiano alla strage (questa sì che è istigazione a delinquere) e felicitazioni per la morte di un politico, sembra che non sia il leader di Casapound l’artefice dell’insulto al morto. Ma che questa, per lo meno, sia una pratica diffusa più che mai e amplificata proprio grazie ai social network. Ciò che si può registrare, invece, è una condanna (giusta) che non è stata rivolta però a tutti quei soggetti che hanno esultato per la morte del prossimo.
Davanti a questa sì ignobile “selezione”, a questa indignazione part-time che cosa fare? Forse occorrerebbe riscoprire non tanto il politicamente corretto “non si parla male dei morti” (cioè di alcuni rispetto che altri). Ma un più e classico rispetto per la morte: quella pietas che è patrimonio intimo della nostra civiltà. A meno che, anche qui, oltre ai social network dalle culture altrui si intenda prendere anche il peggio. Ce lo hanno dimostrato i simpatici marines americani. Quelli che sui morti ci pisciano.

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