Con Armando Plebe la destra fece un brutto “affare”

31 Gen 2012 19:33 - di

Se il ’68 è stato un errore di una certa sinistra rabbiosa e il pensiero di Marx è stato fuorviato dagli stessi marxisti, nei primi anni Settanta l’unica scelta intelligente era approdare nel Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante. Parola del filosofo Armando Plebe, che in un libro racconta la propria versione su quella stagione di battaglie politiche e culturali, che quarant’anni fa lo videro traghettare a sorpresa dalle folte schiere del Pci a quelle, di certo meno numerose e più scomode, del Msi, di cui divenne responsabile culturale e capo degli universitari del Fuan.
Le sue relazioni con l’intellighenzia comunista del secondo dopoguerra, con gli editori progressisti e con quelli conservatori, il confronto con alcuni fra i maggiori filosofi del tempo e il passaggio al Msi, sono raccolte nel saggio autobiografico Memorie di sinistra e memorie di destra, pubblicato per l’editore Qanat. Il saggio di Plebe ha le sembianze di un libretto di memorie personali, in cui non mancano piccanti riferimenti alla vita sessuale di colleghi filosofi, resoconti di serate trascorse nei migliori (o peggiori?) salotti della sinistra borghese di casa nostra e opinioni in libertà su personaggi del calibro di Ugo Spirito, Benedetto Croce, Elémire Zolla e altri ancora.
A distanza di tanti anni Plebe ammette candidamente che la scelta di aderire al Msi non fu una conversione da sinistra a destra, ma la condivisione dell’idea di lottare contro l’anticultura, sia nella sua forma sessantottina, che nelle varianti collettiviste e operaiste. «Per questa idea – ammette il filosofo – affrontai volentieri la mia audace avventura con Almirante, ma convertirsi significa passare da una fede a un’altra e io non ho vergogna ad ammettere che non ho mai professato alcuna fede, né in campo religioso né in quello politico».
A dire il vero, la sua rottura con l’ortodossia comunista, consumata definitivamente nel 1968, era già avvenuta qualche tempo prima e aveva portato alla pubblicazione del libro Che cosa ha veramente detto Marx, nato dall’incontro con l’editore Mario Ubaldini: «Tutti i comunisti – ricorda Plebe – facevano finta di conoscere il Capitale, ma in realtà ben pochi lo avevano, non dico letto, ma neppure sfogliato […] Ad esempio scoprii che nel suo testamento spirituale, la Critica al programma di Gotha, Marx si era rimangiato il suo egualitarismo, rimpiazzandolo con una sostanziale meritocrazia, per la quale ogni individuo deve essere valutato in base ai propri meriti».
Nel raccontare il proprio arrivo nel Msi, ancora oggi Plebe continua a descriversi come colui che avrebbe portato la cultura a destra, perché a quel tempo il Movimento sociale avrebbe avuto – sono parole sue – un quoziente di cultura piuttosto esiguo, limitato alle «idee del filosofo razzista Julius Evola», a cui lo stesso Plebe avrebbe contrapposto Giovanni Gentile, ingenerando così la suddivisione fra i giovani del partito in evoliani e gentiliani. Una lettura, questa, che appare invero alquanto riduttiva e rivela un pregiudizio rispetto alle idee di Evola. Quanto poi alla contrapposizione dialettica fra evoliani e gentiliani, questa risale agli anni Cinquanta e perciò molto prima dell’arrivo di Plebe.
Già nel 1989, Beppe Niccolai aveva criticato un’intervista nella quale Plebe dichiarava di aver portato lui a destra la cultura con la “c” maiuscola. «Il Msi – scriveva Niccolai – non era quella terra di selvaggi descritta da Armando Plebe, inviato a civilizzarla, e con carta bianca… Negli Anni ’50 c’erano in mezzo a noi i libri di Gentile, Evola, D’Annunzio, Marinetti, Soffici, Prezzolini con l’impronta delle grandi “Riviste” fiorentine del primo ’900, c’erano i libri di Papini, di Pirandello, di Pareto, di Mosca, di Sorel. C’era la scoperta appassionata dei francesi, da Peguy, a Barres, a Maurras, a Drieu La Rochelle, a Céline, a Brasillach. L’ambiente missino possedeva biblioteche ben fornite. Era vivo uno dei più grandi storici italiani, Gioacchino Volpe, un costituzionalista di vaglia come Costamagna, un linguista come Antonino Pagliaro… E sai quanti ne dimentico».
Nel suo libro di memorie, Plebe ricorda poi il congresso internazionale della cultura di destra, intitolato “Intellettuali e libertà”, da lui organizzato a Torino nel gennaio del 1973, al quale aderirono diversi esponenti del pensiero non conformista, fra cui Eugène Jonesco, Fausto Gianfranceschi, Giuseppe Berto, Virgilio Titone, Vintila Horia, Diego Fabbri, Francesco Grisi Thomas Molnar, Gabriel Marcel, Adolfo Munoz Alonso, Marino Bon Valsassina.
L’idillio con Almirante, però, subì presto una battuta d’arresto, che non fu, come si potrebbe credere, la scissione di Democrazia nazionale del 1977, alla quale Plebe aderì e di cui nel libro non si parla, ma semmai – come scrive lo stesso filosofo – un rapporto occasionale che egli ebbe con un giovane conosciuto alla Stazione Termini. Il rapporto fu dettagliatamente immortalato in alcuni scatti fotografici e Plebe, ricattato da un anonimo, non ebbe altra scelta che raccontare l’accaduto al segretario del partito, che dopo avere sistemato la faccenda, gli ordinò di non ripetere mai più un simile atto e dimettersi dalla guida degli universitari missini. La collaborazione culturale con il capo del Msi continuò, ma l’idillio era ormai un ricordo.

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