Un anno fa, quando il Cav la spuntava (o forse no?)
«Il prossimo 14 dicembre Silvio Berlusconi potrebbe trovarsi senza nessuno scudo giudiziario che lo metta al riparo dei processi in cui è coinvolto». Così, nel luglio del 2010, Il Fatto Quotidiano annunciava il D-Day. Partì un rullo di tamburi lungo mesi, in attesa dell’udienza della Corte costituzionale relativa al legittimo impedimento. Proprio in quei giorni, del resto, si consumava la rottura tra Berlusconi e Fini. «Che fai, mi cacci?», chiese l’ex leader di An. E Il Cavaliere lo cacciò. Sarebbe passata un’estate di veleni e schermaglie, poi, esattamente in quel 14 dicembre, si arrivò alla resa dei conti. Con tanto di guerriglia fuori dal palazzo, ad opera di diverse centinaia di estremisti che a quell’atmosfera da “crepuscolo degli dei” ci credettero davvero. Insomma, tre direttrici si saldavano tra loro: quello che passa per la magistratura, quello che serpeggia nelle piazze dell’antipolitica e quello strettamente parlamentare. Fallita quest’ultima strada, tuttavia, i nemici del Cav avrebbero tentato altre vie per cambiare la guida del Paese. Ma questa è storia recente.
Quel giorno perse la destra
Gli antiberlusconiani, ipereccitati da quel doppio appuntamento, rimediarono però una doppia delusione: la decisione sul legittimo impedimento venne rimandata (solo il 13 gennaio del 2011 la Corte costituzionale si espresse, mantenendo la norma ma abrogandone alcune parti). Il redde rationem parlamentare, invece, si tramutò in una vittoria di Berlusconi. Vittoria stretta, risicata, di misura, ma sempre vittoria. Oppure no? «Non so di chi fu la vittoria, in quei giorni», spiega Ignazio La Russa. Che continua: «Non so se il 14 dicembre del 2010 ha vinto Berlusconi oppure è lì che è iniziata la sua crisi. Di sicuro fu una sconfitta della destra. Quella giornata segnò la divisione di un mondo che aveva attraversato scelte più difficili e momenti ben più duri. Per noi fu sicuramente una sconfitta e se quella frattura non ci fosse stata oggi il quadro politico sarebbe ben diverso». Insomma, l’ex ministro della Difesa ricorda con una certa malinconia quella convulsa giornata. E non tanto per i suoi effetti sul governo, quanto per ciò che essa ha rappresentato per la storia della destra. Un tornante storico, quello, che di cui si sarebbe potuto sicuramente fare a meno. «Se quel passaggio si poteva evitare? Certo. Tutto quello che dipende dagli uomini – aggiunge La Russa – si può evitare. Il 14 dicembre non è giunto come una calamità naturale, è dipeso dalla volontà e dagli errori degli uomini. Del resto il collegio dei probiviri lasciava aperto uno spiraglio per ricomporre la frattura, ma non si volle arrivare a tanto».
«Evitare una crisi al buio»
Uno dei protagonisti di quella giornata fu anche Silvano Moffa: fra i principali interpreti della voglia di cambiamento canalizzata nella nascita del partito di Futuro e libertà, l’ex presidente della Provincia di Roma fece un passo indietro proprio in quel fatidico 14 dicembre. Niente sì alla mozione di sfiducia, quindi. Perché chiedere più dibattito interno è un conto. Votare insieme alla sinistra è un altro. «Il mio – spiega – fu un gesto di responsabilità nei confronti del Paese. Volevo evitare una crisi al buio per l’Italia. E poi non avevo condiviso la scelta di Fini, che da un lato optava per il terzopolismo e dall’altra rinnegava il governo e il centrodestra». Da lì, nulla sarebbe stato come prima, per il governo Berlusconi. Voti di fiducia a ripetizione, verifiche continue, peones affamati dietro ogni angolo, un lento stillicidio che finì per bloccare l’azione dell’esecutivo. Ma attenzione a ricondurre tutto al solo momento del fallito agguato parlamentare a Berlusconi. Per Moffa, infatti, «l’impasse del centrodestra è antecedente al 14 dicembre. Purtroppo non c’è stato un vero progetto politico forte, è mancata una vera casa dei moderati». Insomma: nulla nasce senza un perché, niente accade per caso.
Due estremismi
Già: da dove nasce il 14 dicembre? In molti se lo sono chiesto. La Russa sembra avere le idee chiare, a tal proposito: «Purtroppo – dice – quel giorno si sono scontrati due estremisti. Il primo e di gran lunga il maggiore estremista fu Gianfranco Fini. Lui aveva deciso di separare la sua strada da quella del Pdl e (me lo disse in modo chiaro, assumendosene peraltro le responsabilità) si era pentito di aver portato An nel Pdl. Il secondo estremista, ma solo di risulta, è stato Berlusconi, che non ha ritenuto di fare qualcosa per cercare una soluzione più conciliante». Insomma, per l’ex ministro è stato determinante il “fattore umano”. Forse troppo umano. Di sicuro La componente personale, in quello scontro, pesò notevolmente. E chissà che oggi le criticità e i punti deboli del centrodestra che determinarono quella crisi non possano essere risolti dal nuovo corso inaugurato da Alfano. La Russa, però, non piange sul latte versato e la prende con filosofia. Anzi, con… storia: «La Restaurazione – spiega – dopo Napoleone cercò con il Congresso di Vienna di instaurare in Europa lo status quo che c’era prima di lui: non durò, non poteva funzionare. La storia non si cancella, la storia non torna mai indietro. La politica va avanti, ci saranno altre formule, altre alleanze, ci saranno nuove evoluzioni, ma quel che è stato rotto non tornerà più come era prima».
L’occasione perduta
Moffa, invece, preferisce riflettere su ciò che avrebbe potuto essere e non fu. Nelle sue intenzioni, del resto, l’azione di Fini avrebbe dovuto realizzare un pungolo costruttivo nel centrodestra e non contro di esso. Ciò non toglie che per l’ex sindaco di Colleferro i rilievi che determinarono quelle frizioni avevano basi reali: «La fuoriuscita di Fini – spiega – poteva rappresentare una nuova fase che recuperasse i valori essenziali del centrodestra. Così non è stato perché da una parte abbiamo assistito alla deriva di Fini, dall’altra il Pdl si è chiuso in se stesso non risolvendo alcuna delle criticità sollevate». Ciò non toglie, comunque, che ciò che non fu fatto allora non possa essere fatto oggi: «Penso che si debba aprire una fase nuova, puntando su un nuovo patto federativo. C’è bisogno di rinnovare la classe dirigente, di maggiore democrazia interna e di radicamento nei territori». Insomma, non è mai troppo tardi per cambiare rotta. Magari cominciando con il diventare un partito vero, proseguendo il dialogo con il territorio e ritrovando un rinnovato feeling con la base. Ad Angelino Alfano staranno fischiando le orecchie…