Storia di Emanuele, dimenticato perché dalla parte sbagliata

16 Nov 2011 20:07 - di

Nessuno se lo ricorda più, e infatti il 5 novembre 2011 è passato senza che sui mass media sia apparso neppure un trafiletto su quel lontano episodio di cronaca nera. Eppure il “fattaccio” accadde. Accadde tanti anni fa, precisamente 38, in una tranquilla città della cosiddetta Padania. Un po’ come nella canzone di De Andrè Delitto di paese: «Non tutti nella capitale / sbocciano i fiori del male / qualche assassinio senza pretese / lo abbiamo anche noi in paese…». Sì, anche la provinciale Pavia ha avuto il suo fiore del male, il suo assassinio “senza pretese”. Senza pretese perché fino ad oggi per Emanuele Zilli giustizia non è ancora stata fatta. Nessuno ha neppure tentato di dare un nome e un cognome al suo boia.
Emanuele aveva 25 anni ed era un coraggioso operaio attivista del Msi, di cui era stato anche candidato alle elezioni comunali. Anzi, fu proprio in seguito a quella scelta che la situazione, fattasi per lui già da tempo delicata, iniziò a precipitare. Certo, Emanuele non era proprio tipo da starsene tranquillo per non dispiacere ai poteri forti. Quando c’era da darsi da fare stava sempre in prima linea, e quelli erano tempi assai duri per chi aveva il fegato di professarsi anticomunista. Ma dopo quella dannata candidatura nella lista di Almirante nulla fu più come prima per lui e la sua famiglia. Telefonate, pedinamenti, lettere minacciose, e poi la scritta inquietante apparsa sul muro sotto casa: «Zilli, sei il primo della lista». Un giorno un collega di lavoro iscritto al Pci arrivò a sputargli in faccia davanti a tutti: «Carogna, morto di fame, fascista! Perché non reagisci, vigliacco? Dovresti essere licenziato». Fino a quel momento, però, tutto si era risolto con insulti e minacce, e lui non dava molto peso alla cosa, anche per non impensierire la moglie.
Ma passare dalle parole ai fatti fu questione di qualche settimana. Emanuele infatti venne aggredito una prima volta, nel 1972, in piazza Castello, mentre si trovava in compagnia di un amico. Qualche mese dopo stava per fare la stessa fine insieme ad altri due amici, uno dei quali, però, rispose per le rime sparando un colpo di pistola all’indirizzo degli aggressori. Un giorno, il 5 dicembre sempre del 1972, si imbatté in un gruppo di ultracomunisti, che appena lo intravidero iniziarono a inseguirlo gridando: «È lui, Zilli!». Lo afferrarono, lo spintonarono, lo picchiarono e gli attaccarono un cartello al collo. Quindi lo trascinarono per i capelli portandolo come un macabro trofeo a spasso per piazza della Vittoria finché il giovane perse conoscenza e si risvegliò in un letto d’ospedale. Malgrado fosse in gravi condizioni il ragazzo, ancora sofferente, fu dimesso quasi subito per consentire alla polizia di arrestarlo in tutta comodità per l’episodio precedente. Due medici del Policlinico furono anche denunciati per l’eccessivo zelo col quale firmarono le sue dimissioni. Emanuele naturalmente, dopo le infamanti accuse, le botte e il carcere patito, risultò innocente, ma ormai il suo destino era irrimediabilmente segnato.
Emanuele Zilli era un umile operaio che, per mantenere la sua famiglia, moglie e due bambine che al momento della sua fine avevano uno e due anni, era impiegato presso una nota ditta di Pavia. E fu proprio al termine della sua giornata di lavoro che trovò la morte ad attenderlo. Il quotidiano La Provincia Pavese in proposito scrisse: «Sembra che venerdì sera egli fosse uscito dal lavoro e, verso le 18 e 30, stesse facendo ritorno a casa in sella al proprio motorino percorrendo una traversa di via dei Mille. Qui è stato rinvenuto, poco dopo le 18 e 30, esanime a terra accanto al proprio motorino. Il corpo dello Zilli giaceva sulla sinistra della carreggiata. Prontamente soccorso, il giovane veniva trasportato al Policlinico. In un primo tempo si faceva l’ipotesi più ovvia, quella dell’incidente stradale: lo Zilli sarebbe sbandato sulla propria sinistra, andando a sbattere contro un’auto o finendo a terra per un malore. Ma alcune circostanze inducono ad una maggiore cautela: lo Zilli infatti aveva un occhio pesto, come se fosse stato picchiato; sul collo presentava un profondo graffio e il suo corpo era stato trovato in una posizione “strana” rispetto al motorino. Il luogo era completamente deserto – aggiungeva il quotidiano – e non c’erano macchine intorno contro cui Zilli potesse aver urtato cadendo. Né segni di un incidente stradale». Tre giorni durò l’agonia del povero ragazzo, che si spense senza mai riprendere conoscenza all’alba del 5 novembre 1973. Se si fosse trattato di un intoccabile della sinistra, istituzionale e non, si sarebbe scatenata la caccia all’uomo, con i media mobilitati per denunciare «il gravissimo episodio d’intimidazione ecc. ecc.»; le forze dell’ordine avrebbero setacciato la città in cerca dei responsabili e poi come minimo si sarebbe intitolata una piazza o una strada all’eroe “vittima dei fascisti”. Ma Emanuele ebbe l’imperdonabile torto di cadere dalla parte sbagliata della barricata. Pertanto, non solo non si sono cercati testimoni dell’accaduto, ma gli investigatori non si sono neppure preoccupati di verificare con la dovuta accuratezza l’alibi dei più feroci estremisti di sinistra del luogo. Vale a dire dei vigliacchi che pure gliel’avevano giurata con tanto di vernice spray sul muro del palazzo.
In conclusione, sulla tragica fine dell’operaio pavese non è mai stata fatta luce. La tranquilla, sorniona, ricca Pavia ha preferito finire col rimuovere del tutto l’episodio, facendo finta di credere alla ridicola tesi dell’incidente. Pertanto, dopo 38 anni della triste vicenda, di Emanuele sono rimasti solo il comunicato del Msi che chiedeva invano giustizia, il pianto inconsolabile della moglie ventunenne; e quello di due bambine che non hanno mai conosciuto il padre. E – accanto al vuoto rimasto nel cuore di chi gli fu amico – l’amara presa d’atto che la Giustizia in Italia iniziò a morire proprio in quei cupi e lontani giorni di novembre del 1973.

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