Contrordine compagni: meglio il liceo classico
Contrordine compagni: il liceo classico va rivalutato. L’ordine di servizio è finito su “La bustina di Minerva” di Umberto Eco, la rubrica dell’Espresso che, dal 1987, rappresenta il prontuario del perfetto intellettuale alla moda.
Il semiologo e romanziere parte dalla notizia sul «rinato dibattito sulla sopravvivenza del liceo classico, dibattito motivato dal fatto che le iscrizioni stanno aumentando». Memore dell’ostilità sessantottina, Eco non abiura del tutto e premette che, «nessuno più di me ritiene che ci si dovrebbe iscrivere in maggior numero alle facoltà scientifiche», «ma l’idea che alcuni ragazzi delle medie scelgano il classico, anche se appare più esigente, mi consola». E qui, il grande modernizzatore, primo teorico italiano della supremazia dello scrivere con il Pc rispetto alla penna o alla macchina per scrivere, si svela più conservatore di Prezzolini, più nostalgico di Montanelli. «Anche nel mondo della tecnologia l’avvenire è di chi sa ragionare. Proprio quello che assicura una preparazione umanistica». L’autore de Il nome della rosa contraddice anni e anni di campagne degli anni Settanta contro l’inutilità degli studi umanistici per tranciare la sua apodittica presa di posizione: «Serve studiare greco per ideare un buon programma per computers? Sì. Perché? Non lo chiedete a una Bustina che dispone di poco spazio. Se non lo avete capito da soli, datevi al contrabbando di droga e vivrete felici e contenti».
Il dogma sessantottino
C’è un bel libro di Adolfo Scotto di Luzio Il liceo classico (edito dal Mulino) che ne descrive la sua genesi. Il modello concepito da Giovanni Gentile puntava a un concetto: la formazione della classe dirigente avrebbe dovuto sempre passare attraverso il liceo classico, considerato l’unica scuola in grado di aprire tutte le porte partendo da un presupposto. Gli alunni non imparavano nozioni, ma imparavano anche e soprattutto a discutere una tesi. Appunto il metodo critico con cui le discipline venivano insegnate era l’arma vincente. Ma il dogma sessantottino prevedeva tutt’altro. Teorizzava la supremazia della scuola professionale, attenta alla manualità. Da qui, la sintesi brutale e maliziosa: il liceo classico non piace ai comunisti e ai postcomunisti perché insegna a ragionare, a smontare, a mettere in discussione. Una scuola che insegna ad avere metodo e a ragionare poteva essere pericolosa, soprattutto in piena guerra fredda, con un classe dirigente, quella del Partito comunista italiano, costretta ad allinearsi di volta in volta con i diktat provenienti da Mosca.
L’ostracismo di Berlinguer
Meno giustificazioni ha avuto, dopo la caduta del Muro di Berlino, la linea di netta ostilità adottata dal ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer il quale, contro il liceo classico aveva condotto una personalissima e virulenta battaglia. Nel 1996, una sua intervista (guarda caso proprio all’Espresso) scatenò l’indignazione di gran parte del mondo accademico e culturale italiano: «Il liceo classico? Non va d’accordo con la cultura contemporanea». Si scatenò un dibattito su quel che Beniamino Placido definì «quel caro inutile liceo classico». Spietato il giudizio di Berlinguer: «Il grande liceo classico in cui abbiamo studiato, che è stata la fortuna dell’Italia, ci ha corrotto. Molti di noi, che hanno fatto quegli studi, hanno un rifiuto della manualità e questo è un fatto che non va d’accordo con la cultura contemporanea. Quando si sente dire: “Quello è un bighellone, non ha voglia di studiare”, è un giudizio sbagliato. Questa scuola non accoglie alcune delle attitudini dei ragazzi che, da parte loro, hanno bisogno di coltivare anche un minimo di manualità». In nome della tanto enfatizzata attenzione al mondo del lavoro da ministro aveva teorizzato una sorta di socialismo tecnocratico, in grado di formare personale forgiato, come proposto con l’istituzione di un liceo delle “Scienze sociali”, in modo da «superare la distinzione tra teoria e pratica in una concezione poietica del sapere» In soldoni, come teorizzato dallo stesso Berlinguer per «superare la concezione in base alla quale certa cultura ha carattere «disinteressato». Da qui la l’intenzione di “annegare” il liceo classico all’interno del Riordino dei cicli formativi.
I testimonial nel governo
Tutto sommato, gli ideali testimonial della validità del liceo classico potrebbero essere i componenti dell’attuale governo. Prendiamo il presidente del Consiglio nonché ministro dell’Economia, Mario Monti (maturità dai Gesuiti, Istituto Leone XIII di Milano, liceo classico, sezione B). Lo stesso si dica per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, (maturità nel 1970 al liceo Galluppi di Catanzaro). Vogliamo parlare del superministro allo Sviluppo economico e alle Infrastrutture? Corrado Passera si è diplomato al liceo Volta di Como, nel 1973 alla sezione B). Idem per il ministro alla Giustizia, Paola Severino, (maturità classica nel prestigioso liceo Sannazaro del Vomero, a Napoli) e per il ministro alla Cooperazione internazionale Andrea Riccardi (liceo romano Virgilio). Come pure il responsabile della Farnesina, Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (maturità classica al Collegio vescovile Sant’Alessandro di Bergamo). A loro si potrebbe aggiungere un altro testimonial di lusso, l’ex governatore della Banca d’Italia e attuale presidente della Bce, Mario Draghi (maturità classica al Massimo, storico istituto dei gesuiti di Roma).
Per “Repubblica” meglio i ragionieri
Potrebbe bastare, ma non bastano a Repubblica, che nel numero del 17 novembre è riuscita a trovare una statistica molto più significativa. Tra gli uomini dei “poteri forti” qualcuno legge una prevalenza degli istituti religosi e degli studi umanistici? È qualcuno che ha letto male, come spiega ai lettori Roberto Mania: «Nel suo piccolo la V B dell’Istituto Luigi Einaudi di Torino ha fatto in proporzione molto di più: è stata la classe dei ministri. Ben due nell’arco di un quinquennio: Cesare Damiano e, ora, Elsa Fornero. Entrambi ministri del Lavoro. Compagni di classe nell’ultimo triennio del corso di Ragioneria, quello che ha "salvato" la Fornero – per sua stessa ammissione – da una possibile grigia carriera da insegnate di scuola media (se avesse scelto il liceo classico) e le ha aperto le porte allo studio dell’economia». Il riflesso pavloviano, caro alla sinistra, è duro a morire. Del liceo classico o se ne parla male o non se ne parla.