Commissioni affollate: c’è l’obbligo di firma ma nulla da decidere…

24 Nov 2011 20:38 - di

«Dov’è il registro, dove si firma?». Sembra la sala d’attesa del medico della mutua, è la commissione Difesa della Camera. Mercoledì, ore 13.35, presiede Edmondo Cirielli, all’ordine del giorno c’è il parere sull’acquisizione di due veicoli militari della linea «Nuova Blindo Centauro 2», un provvedimento che riguarda la sicurezza dei militari italiani impegnati nelle missioni: in questi casi il via libera, generalmente bipartisan, viene dato dai capigruppo, quattro, cinque, sei in tutto. Invece nella saletta  della Commissione c’è ressa, si forma una fila per raggiungere il registro delle firme sistemato al centro, i “soliti noti” che in genere seguono i lavori vedono comparire facce sconosciute, si respira una stana aria da evento, per un provvedimento che invece rientra nell’ordinaria amministrazione. Cosa succede?

Dalla spigola al cartellino

Succede che dal 15 novembre i parlamentari devono presentarsi in Commissione e firmare, se non vogliono perdere una parte della diaria mensile. Un provvedimento anti-casta destinato a eccitare gli animi dei più sfegatati denigratori della classe politica italiana, ma che alla luce dei fatti sta ottenendo solo il risultato di mortificare i deputati, senza incidere per nulla sulla produttività della Camera, in una fase di desertificazione dei lavori causata dal commissariamento del governo tecnico. Non c’è nulla da fare, ma ai parlamentari viene chiesto di partecipare a sporadiche riunioni di commissione dove c’è poco o nulla da decidere o contestare, considerando il nuovo scenario di maggioranza della larghe intese: con la beffa di dover firmare un registro e l’ipocrita libertà di potersene andare subito dopo averlo fatto, garantendosi la diaria grazie a un sistema surreale da impiegato che timbra il cartellino: come se questo gesto avesse un qualche peso politico sulle sorti del Paese, ora che ormai tutto si decide altrove. Le poche votazioni importanti sono in aula, dove invece il sistema voluto da Fini ha un senso, perché le “minuzie” – il sistema di rilevazione delle impronte – consente di legare l’eventuale “penalità” economica dovuto alle assenze, al numero di votazioni alle quali realmente si partecipa. Nulla a che vedere col sistema del Bundestag tedesco, dove invece tutto si decide in Commissione e le misure arrivano in aula solo per il via libera finale, in settimane lavorative intense che si alternano a fasi di interruzione dell’attività che consentono ai parlamentari di dedicarsi all’attività politica sul territorio.

L’anti-casta fa male anche a Monti
Oggi, e non è certo per l’introduzione di questi cartellini da timbrare, in Italia si parla molto meno della casta. Forse perché l’input di Monti sulla “centralità del Parlamento” (al quale però chiede di votare i pacchetti chiusi) necessita di una rivalutazione morale delle Camere e mal si concilierebbe una campagna contro la classe politica se alla stessa si chiede però di “salvare” l’Italia aiutando i professori. Non si parla più delle spigole a 6 euro a disposizione dei senatori, delle auto blu ai ministri, della barberia con lo sconto. E perfino l’abolizione dei vitalizi, decisa ieri al Senato, passa come un miracolo della nuova era dei tecnici. Forse è una coincidenza. Un’altra, strana coincidenza del dopo Berlusconi.

La folla e il vuoto decisionale

Facile sostenere che l’idea di costringere i parlamentari alla presenza in aula, pena un decurtamento della diaria, risponda alle aspettative degli italiani che disprezzano i politici. Vale la pena di raccontare però come il politico di professione sia stato prima colpito a dovere con la campagna dell’anti-casta, poi esautorato con la spallata tecnica, per poi oggi finire nel mirino della politica del “registro” che finge di stimolarli nel lavoro e che invece li mortifica, senza peraltro determinare reali risparmi alle casse dello Stato, visto il meccanismo adottato per le Commissioni. Ecco perché. Un taglio era già stato effettuato, a gennaio: la diaria ammontava a 4.003.11 euro mensili ed era stata ridotta a 3.503.11. Da metà novembre nelle Commissioni incassa 500 euro in meno chi non partecipa all’80 per cento delle sedute e 300 euro in meno chi salta la metà delle convocazioni. Ora, per quanto uno si voglia impegnare a non esserci, è difficile immaginare che un parlamentare possa saltare più di 8 sedute su dieci. Ma il punto è un altro: in questa fase politica in cui il Parlamento attende che dall’alto Monti cali i provvedimenti da votare in modo bipartisan, che senso ha partecipare a inutili audizioni (che sono il piatto forte di questo asfittico calendario di convocazioni) che mai avranno un interlocutore politico nel governo? O partecipare a indagini parlamentari che finiranno nella melassa di una maggioranza allargata e senza alcuno sbocco in misure conseguenti? O portare avanti leggi e leggine destinate a trascinarsi fino alla fine della legislatura senza un nulla di fatto? Intanto, però, il Parlamento fantasma è stato trasformato in una “firmeria” di soldatini in attesa di comandi.

C’è anche chi firma e s’indigna
Tra i più “indignados” (e sono tanti, e molto bipartisan) per la pseudo moralizzazione delle Commissioni, c’è Maurizio Bianconi, vicepresidente del Pdl, che definisce “bischerate” queste misure per garantire la presenza dei parlamentari. «Premesso che se uno vuole, va, firma e se ne va, ma il punto è un altro. Chi può pensare che mettendo un registro delle firme in Commissione si aumenti la produttività del Parlamento? Questa è una misura per dare addosso al politico e poter dire: deve lavorare di più. Proprio adesso che ci hanno tolto la possibilità di farlo. Da due settimane alla Camera non si fa nulla, nulla! Che dice il presidente Fini di questo? Aspettiamo che il governo Monti decida qualcosa, se noi avessimo perso tutto questo tempo ci avrebbero mangiato. Però ci fanno mettere la firma, come gli studentelli, in un Parlamento svuotato, per poi dire, gli abbiamo tagliato lo stipendio…».

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