Noi, precari di successo

6 Ott 2011 20:10 - di

Precario, un termine truffa, un vestito cucito ad arte. La storia della creatività e dell’industria italiana ci hanno insegnato che è stata proprio la precarietà, spesso, la precondizione di un successo costruito nel tempo, una molla per la realizzazione di qualcosa di duraturo e anche di remunerativo. In Italia, che è la patria dell’arte di arrangiarsi, dovrebbe suonare stonato sentir parlare di “posto fisso”  come mito assoluto cui un giovane deve tendere dalla culla alla tomba. Basta guardarsi intorno e farsi un giretto nelle altre nazioni d’Europa per rendersi conto che la precarietà è vissuta come normale modalità di approccio al lavoro, anzi, spesso addirittura scelta per gli innumerovoli vantaggi che pone sotto il profilo contributivo e previdenziale avere un contratto di un anno, rinnovabile. Conviene all’azienda, conviene al “precario” che può rinnovare o scegliere anche qualcosa di più vantaggioso, in libertà, seguendo le sue inclinazioni. Non solo Steve Jobs, anche nel nostro Belpaese la “filosofia del precario” ha avuto proseliti. Qualche esempio di precari di successo? Prendiamo Armando Testa, il più importante pubblicitario italiano, autore di alcuni spot ancor oggi insuperabili come la pubblicità per il Cafè Paulista di Lavazza con Carmencita e Caballero, Pippo, l’ippopotamo per i pannolini Lines. Aveva iniziato frequentando la non particolarmente famosa Scuola Tipografica Vigliardi Paravia, per poi “autopromuoversi” attraverso la conoscenza con pittori e pubblicitari. E il successo non sempre ti sorride da subito. Pensate, uno come lui nel 1958 vinse il concorso per il manifesto ufficiale delle Olimpiadi di Roma, ma non si sa come, il progetto venne rifiutato. Andò meglio le volte successive, fino all’approdo al mitico Carosello, un successo arrivato quando si aggirava intorno alla cinquantina. Poi fondò nel 1978 l’Armando Testa S.p.A. con sedi a Milano, Roma e all’estero. Oggi la società è classificata fra le prime 18 al mondo per fatturato.
Cambiamo genere. Non è un caso che la sua biografia pubblicata con la prefazione di Francesco Alberoni, s’intitoli My challenge. Franco Polti è il più classico esempio del “self made man”: uomo venuto dal nulla, nato in un paesino della Calabria, in pochi anni ha fatto sì che il suo cognome diventasse sinonimo di alcuni dei più diffusi elettrodomestici: «La Vaporella l’ho inventata io nel 1978», dice orgoglioso. L’azienda in realtà nasce qualche anno dopo, nel 1984. Da allora è stata un’ascesa continua, che lo ha portato alla ribalta internazionale e ad avere più di mille dipendenti. «La mia vita è stata una sfida continua», racconta, «bosogna avere il coragio di pensare in grande». Non di posto fisso si nutrono il successo e l’invenzione di qualcosa che duri nel tempo. Prendiamo la storia del re dei vignettisti italiani come Giorgio Forattini. L’avreste mai pensato che a 20 anni faceva l’attore? Dire che la “precarietà”, fino agli anni Settanta sia stata la sua dimensione naturale è dire poco. «Vengo da una famiglia molto benestante e mio padre voleva che facessi il bancario, aveva il pallino del posto fisso». E lui per tutta risposta che ha fatto? «Di tutto, sono andato via da casa molto giovane. Mi sono iscritto all’Accademia d’arte drammatica, ho fatto l’attore per circa sette anni», ci racconta. «In seguito sono stato operaio in una raffineria di Cremona. Lì risposi a un annuncio su un giornale e feci il rappresentante in giro per l’Italia. Vendevo dischi, elettrodomestici e altro, tutto sulla mia Seicento. Solo nei primi anni ‘70 feci un concorso per il fumetto indetto da Paese Sera, lo vinsi e iniziai a fare una striscia al giorno». Non che il desegno non l’avesse nel sangue: «Già a scuola disegnavo alla lavagna i professori, che mi sospendevano puntalmente… Ho passato giornate intere in tipografia, fino a quando non fu fondata Repubblica, che ho contribuito a creare, disegnando la prima pagina». Il resto, i successi, i libri, sono una storia nota. Ma della “vita da precario”, vissuta e inventata giorno per giorno, non cambierebbe una virgola: «Mi è servita per il senso di libertà che mi ha dato, oltreché per lo spirito di osservazione e l’affinamento dell’umorismo».
Cambiamo ancora genere e andiamo da un famoso inviato nei teatri “caldi” del pianeta, Fausto Biloslavo, oggi legato al Giornale, che dice «Quand’ero free-lance, quella sì era una bella vita, viaggiavo e proponevo reportage in libertà. Adesso, anche per senso di responsabilità, sono molto più cauti ad inviarmi e non mi muovo più come vorrei….». Vita da free-lance, che vuol dire? «Vuole dire autofinanziarsi e “autoinviarsi”. Tra un po’ festeggio 30 anni da inviato e se mi avessero offerto allora un posto fisso in redazione, l’avrei rifiutato. La creatività può essere ovunque, anche a casa propria. Per questo andrebbe proprio cambiata la mentalità in Italia, altrove l’istituto dell’ home work, per esempio, è diffusissimo».
E che dire di Flavio Briatore? Billionaire, Formula 1, proprietario della squadra inglese del Qpr, uomo di successo. Eppure anche Briatore è stato un precario. Diplomatosi con voti piuttosto bassi come geometra, ha lavorato come istruttore di sci e gestore di ristoranti. Di sua proprietà il Tribula, poi chiuso. Dopo aver fatto il piazzista di polizze assicurative a Saluzzo e dintorni, ha esordito nel mondo dell’imprenditoria a Cuneo, collaborando con un finanziere locale e costruttore edile, Attilio Dutto, che aveva rilevato la Paramatti vernici, ex azienda di Michele Sindona. Il 21 marzo del 1979, Attilio Dutto venne assassinato a Cuneo con una bomba collegata all’accensione della sua auto. La verità sul caso non fu mai accertata. Conobbe pou Achille Caproni (Caproni Aeroplani) e divenne consulente della Cgi (Compagnia generale industriale), sua holding. Poco dopo, la Paramatti, acquistata nel frattempo da Caproni sotto consiglio dello stesso Briatore, ebbe un crac e il pacchetto azionario della Cgi fu venduto alla statale Efim. Diverse società del gruppo fallirono. Per un certo periodo, allora, Briatore si presentò in pubblico come discografico. Insomma, pare che la precarietà non sia mai stata un disvalore. Queste storie insegnano – ma altre ce ne sono, –  che gioventù e precarietà siano per un certo periodo un binomio naturale nel “cursus honorum” di un ragazzo che voglia essere «curioso e folle». Parrebbe strano vederlo, giovanissimo, rinchiuso tra quattro mura, dietro una scrivania e vederlo riuscire dopo  65 anni, magari dopo aver vissuto una vita non sua… Il cambio di passo e il cambio di prospettiva muta, naturalmente, in seguito, quando cresce famiglia, per così dire, ma questa è tutta un’altra storia. È d’accordo persino un sindacalista, Enzo Mattina, una vita nei vertici della Uilm, (la federazione dei metalmeccanici) e della Uil, autore tempo fa di Elogio della precarietà. Il lavoro tra flessibilità, sussidiarietà e federalismo, edito da Rubbettino, un libro che potrebbe essere in contraddizione con il suo lavoro ma non lo è.

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