Gli animalisti de noantri brindano nello zoo di Napoli
La Park and leisure, la società che controllava l’Edenlandia e lo Zoo di Napoli è ufficialmente fallita. Una conclusione più volte rimandata ma ormai inevitabile per la montagna di debiti accumulata nel tempo. Dietro le persiane, però, questa volta a scrutare l’evoluzione della vicenda ci sono occhi molto interessati a un possibile riuso dei suoli dei due parchi per il tempo libero. L’enorme area su cui insistono è, infatti, di proprietà della Mostra d’Oltremare Spa, il polo fieristico flegreo già destinato ad essere, con le sue attrezzature, il cuore del Forum internazionale delle culture.
Per ora, il giudice del tribunale ha deciso di non chiudere le attività delle due strutture, assicurando loro una gestione provvisoria che terminerà il 21 novembre, nella speranza che qualcuno si faccia avanti per rilevarle e salvare così il futuro occupazionale di oltre cento lavoratori e la vita di migliaia di animali. Ed è forse proprio la preoccupazione che un nuovo imprenditore possa assicurare una continuità e nuova linfa alle attività ricreative che qualche “animalista de noantri” ha ripreso a recitare la stereotipata – e forse teleguidata – litania contro il permanere dello zoo.Quello che negli anni Cinquanta, per volere di Luigi Tocchetti, presidente della Mostra d’Oltremare – allora partecipata statale – diventò il Giardino zoologico di Napoli, in realtà era stato concepito per ben altri scopi. Insieme alle Serre tropicali progettate da Carlo Cocchia, all’Acquario tropicale e ai numerosi giardini tematici, il Parco faunistico aveva il compito di presentare ai visitatori dell’Esposizione Triennale delle Terre italiane d’Oltremare (1940), la flora e la fauna delle nostre colonie in terra d’Africa. Le ardite e originali soluzioni adottate da Luigi Piccinato, tra cui un vasto laghetto artificiale per la fauna acquatica, evitarono ad antilopi, scimmie, leoni di dover essere ristretti in ambienti angusti e ingabbiati. Contrariamente al sentimento animalista della gente comune che si rivolge per lo più alla condizione del singolo animale che alla necessità di garantire la sopravvivenza della sua specie nel luogo d’origine, Franco Cuneo e Claire Wenner – fondatori e direttori del Giardino zoologico di Napoli – finalizzarono la loro creazione a obiettivi di natura scientifica, culturale e didattica, contribuendo, tra l’altro, in maniera determinante al salvataggio dalla sicura estinzione dell’Orice bianco d’Arabia.
I 21 ettari della sua superficie – 15 occupati dai recinti e 6 da una collezione di pregiate ed esotiche essenze – consentivano che esso si rappresentasse come il primo degli zoo italiani. Mentre 400mila visitatori annui (anni ’60/’70), per la maggior parte studenti universitari e scolaresche, testimoniavano l’effettivo il valore culturale e scientifico del parco faunistico, ma non a garantire le necessarie risorse economiche delle quali Cuneo e Wenner avrebbero avuto bisogno per riprodurre gli originari ambienti naturali degli animali. Il loro sogno (irrealizzato) era quello di liberare le tigri dalle gabbie e immetterle in un microsistema ecologico a loro più confacente. Le condizioni di favore concesse agli studenti per l’ingresso al parco, avrebbero dovuto essere compensate da contributi pubblici mai puntuali.
Negli anni immediatamente successivi al sisma del 1980, per l’iniziativa del professor Giorgio Matteucig, cattedratico della Federico II, nel giardino zoologico fu installata una stazione sperimentale della Facoltà di Zoologia per lo studio previsionale dei sismi attraverso le osservazioni delle variazioni comportamentali degli animali. La stazione e la ricca biblioteca scientifica di Villa Leonetti diventarono così il punto di riferimento per quanti intendevano avvicinarsi allo studio dell’interazione tra mutazioni del comportamento animale e manifestazione sismica. Centinaia di studenti e, soprattutto, un gran numero di scienziati provenienti prevalentemente dalla Cina e dal Giappone conferirono alla stazione sperimentale, e quindi al giardino zoologico di Napoli, una caratura internazionale. Ma si sa, l’Italia non è un paese anglosassone né uno degli Stati Uniti d’America dove gli zoo usufruiscono dei contributi delle grandi società di zoologia, finanziate a loro volta dallo Stato. Da noi si ricorre a fondi privati o a pubbliche elargizioni. Contributi che nel nostro caso venivano erogati lontano dal momento di maggior bisogno per la qual ragione finivano con l’essere assorbiti dagli interessi bancari per nulla agevolati, azzerando qualsiasi ipotesi d’investimento sulle strutture. Cosicché mentre all’estero lo zoo di San Diego (California) offre lavoro a un elevato numero di operatori altamente qualificati tra amministratori, esperti di public relation, ricercatori, veterinari, biologi – il solo settore del Sea World occupa stabilmente oltre 700 persone – da noi sarebbe fantascienza. Nella migliore delle ipotesi si tratterrà di un bioparco, altrimenti costituirà l’ennesima occasione di sviluppo gettata al vento.