Gheddafi e gli abbracci dimenticati

21 Ott 2011 20:13 - di

A dare retta ad alcuni giornali italiani pareva che solo Silvio Berlusconi avesse intrattenuto relazioni ufficiali con Muammar Gheddafi. C’è voluto il tragico epilogo di Sirte per ripescare dagli archivi internazioni le “photo opportunity” del passato. Da Romano Prodi a Tony Blair, da D’Alema a Zapatero. Baci, pacche sulle spalle, sorrisi smaglianti, dichiarazioni d’amicizia. Su tutti il premio Nobel per la pace Nelson Mandela, 93 anni, leggenda vivente planetaria. «Coloro che si sentono irritati dalla nostra amicizia con il presidente Gheddafi possono andare a fare un tuffo in piscina», fu la risposta sprezzante dello statista sudafricano a chi gli rimproverava la relazione pericolosa. Una riconoscenza antica, dai tempi dell’appoggio (e dei finanziamenti) del Colonnello negli anni dell’apartheid.  
Da Mandela in giù, è una impressionante galleria di personalità, tanto che si fa fatica a trovare un leader internazionale degli ultimi quarantadue anni che non abbia avuto familiarità, confidenza e che non abbia fatto affari con il Raìs.
In particolare la sinistra italiana vanta una collezione di figurine degna dell’album Panini. Sopra vedete Romano Prodi immortalato nel suo abbraccio al dittatore libico. La foto è datata 27 aprile 2004. È in occasione della prima visita in Europa dopo la fine dell’embargo Onu contro la Libia, embargo terminato grazie anche agli sforzi dell’allore presidente Ue. «Voglio esprimere la mia gratitudine a mio fratello Romano», disse Gheddafi. E Prodi di rimbalzo: «Oggi è un grande giorno per l’Europa». Perché la sinistra ha sempre rivendicato orgogliosamente la primogenitura dell’amicizia a dispetto di quell’usurpatore di Berlusconi. Tanto che nell’agosto di tre anni fa, in occasione della firma del trattato di amicizia italo-libica il diessino Marco Minniti, ex sottosegretario agli Interni, puntualizzò: «Fu il governo Prodi il primo a dialogare con Gheddafi. E il primo ministro europeo a fargli visita ufficiale nel 1999 fu Massimo D’Alema». Verità sacrosanta, l’intesa sulla materia era già stata firmata a Tripoli il 29 dicembre del 2007 proprio dall’allora ministro degli Esteri del governo Prodi. Tutto dimenticato in fretta.
Un capitolo a parte meriterebbe il matrimonio d’interesse con la Fiat nel 1976. Non è un mistero che tra i sensali ci fosse il Pci di Enrico Berlinguer attraverso il responsabile della politica estera del partito, Sergio Segre. Nozze durate fino al settembre 1986, quando i missili di Lampedusa e le minacce di ritorsioni da parte del governo Usa, costrinsero la famiglia Agnelli al divorzio. Fino a quella data la Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico), braccio finanziario del governo di Tripoli, aveva investito nella Fiat 360 miliardi di lire (su un fatturato complessivo del gruppo di poco più di 4mila miliardi); il socio libico possedeva il 15,19 per cento delle azioni ordinarie e il 13,09 per cento delle privilegiate. L’Avvocato disse apertamente che la Fiat aveva bisogno di soldi e che c’era poco da fare gli schizzinosi: «Un’azienda non fa politica: si preoccupa del suo sviluppo. Il nostro dovere è di prendere il denaro dove c’è».  
Dall’imprenditore simbolo del capitalismo italiano a Valentino Parlato, fondatore del manifesto, il passo è ciclopico, ma il realismo è rimasto lo stesso. Da Parlato è arrivata ieri perlomeno una lezione di coerenza: «Sono molto legato alla Libia (e un po’ lo ero anche a Gheddafi) perché ci sono nato – ha scritto sul quotidiano comunista – lì c’è stata la mia formazione politica e diventai comunista». Almeno lui non ha tradito la sua storia. Del resto, a sentire Parlato il Raìs non andava neppure definito un dittatore. Come ebbe modo di spiegare al Corriere della Sera in occasione della visita a Roma del giugno 2009. «È un leader. La connotazione occidentale di dittatore non corrisponde alla realtà libica. Dittatore è un modo per indicare un nemico, il leader, invece, ha un grande prestigio». Un prestigio superiore a quello del Papa, a dar retta ai docenti dell’Università de La Sapienza di Roma. Infatti a Gheddafi fu consentito di intervenire, sebbene tra le contestazioni degli studenti. Contro Ratzinger, invece, un anno prima c’era stata una levata di scudi di un centinaio di professori perché avevano ritenuto il Papa «troppo reazionario».
Nessuno è esente da colpe, neanche le Nazioni Unite. Nel giugno 2010 con 155 voti favorevoli e solo 37 contrari , la Libia entrò nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Un precedente ricordato da Human Right Watch. «L’Onu – ha attaccato l’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani – deve riconoscere l’errore di aver sostanzialmente legittimato la dittatura del colonnello, eleggendo la Libia nel Consiglio e  nominando la figlia del dittatore Aysha ambasciatore di buona volontà». Con buona pace dei troppi professori di democrazia, saliti in cattedra a cadavere ancora caldo.

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