C’è una casta che si lamenta e che riscuote
Nella sua inedita veste di “lotta” – più che di associazione di “padroni” – l’abbiamo vista all’opera solo ultimamente. «Per il governo il tempo è scaduto», «Basta vivacchiare, siamo stufi di essere zimbello internazionale» parole di Confindustria. Toni e linguaggi che vanno a braccetto con l’opposizione più radicale e demagogica. E che invece provengono dall’associazione degli industriali che, con tanto di manifesto politico chiamato “progetto per l’Italia”, è entrata a gamba tesa nella querelle politica. Per carità, legittimo che gli imprenditori lamentino le mancate misure e riforme (non la pensa così un manager come Sergio Marchionne che ha sbattuto le porte in uscita con un’“aziendina” che di nome fa Fiat accusando l’associazione di categoria di aver disatteso ciò che l’Europa ha chiesto sul tema della flessibilità dei contratti). E ciò sarebbe ancora più legittimo se la suddetta organizzazione non fosse – a suo modo – parte del problema. Perché basta porsi una semplice domanda – quanto costa Confindustria alla Repubblica italiana in un tempo di crisi come questo? – per rimanere sorpresi e accorgersi che con tutta probabilità ci troviamo di fronte all’ennesima casta. Ma non solo. Perché se uno dei punti del j’accuse verso il governo è stata la mancata spinta alla crescita basta verificare quanti sono stati i contributi dello Stato alle imprese per smentire per lo meno la litania degli addetti ai lavori sull’abbandono verso il settore produttivo.
Ma torniamo all’associazione presieduta da Emma Marcegaglia. Se questa formalmente non costa allo Stato (in quanto associazione tra privati), di sicuro è un onere per i contribuenti. Come? Con il finanziamento che Il Sole 24Ore, quotidiano appunto di Confindustria, percepisce dal pubblico. E anche qui la gestione Marcegaglia non sembra aver portato grossi risultati: a partire dalla conduzione targata Gianni Riotta che è coincisa con la perdita di migliaia di copie in edicola.
Confindustria non è solo un costo per lo Stato, ma lo è anche per gli aderenti. A quanto risulta, infatti, sarebbe di circa 564 milioni di euro all’anno l’introito che arriva nelle casse dell’associazione da parte dei soci. È una cifra importante: ma corrisponde alla qualità del servizio? Togliendo il macigno Fiat, non sembra che gli aderenti maggioritari – le piccole e medie imprese – siano soddisfatte dalla politica dell’associazione. Perché – se dal punto di vista tecnico-sindacale nel territorio Confindustria garantisce un servizio – discorso diverso è l’incidenza sulla politica nazionale: tutta schierata con le grandi imprese. Ricapitoliamo: nonostante i finanziamenti dello Stato a imprese ed editoria, nonostante i risultati tutt’altro che esaltanti delle gestioni Montezemolo e Marcegaglia, nessun accenno di autocritica ma solo critiche verso il governo. Sembra quasi di avere a che fare con un partito a tutti gli effetti.
Proprio questo è stato l’argomento di un libro che ha aperto lo scorcio sul sistema Confindustria. E che fin dal titolo è eloquente: Il partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia (edizioni Longanesi). Si tratta di un pamphlet-inchiesta firmato dal giornalista del Mondo Filippo Astone che spiega – come si legge nel retro della copertina – che «in Italia il cuore del potere pulsa con il ritmo di due grandi partiti che non si presentano direttamente alle elezioni: la Confindustria e la Chiesa Cattolica». In effetti, i numeri che vengono snocciolati nel libro sono emblematici e dimostrano come l’associazione di Emma Marcegaglia rappresenti un sistema ricco, potentissimo e ramificato sul territorio: 142mila imprese iscritte; 4mila dipendenti diretti e circa 2mila imprenditori impegnati praticamente a tempo pieno; 506 milioni di ricavi da quote associative che si sommano ad altri 500 milioni fatturati dalle imprese controllate (come abbiamo visto Il Sole 24Ore, ma non solo); 18 strutture regionali, 97 provinciali, 21 federazioni di settore e 258 organizzazioni associate. Come si può notare si tratta di una macchina burocratica elefantiaca e piena di interessi, rispetto alla quale il “grande accusatore” con la sua inchiesta un anno fa era stato profetico: «Io descrivo questa realtà – spiegava Astone – per evidenziare come Confindustria è del tutto simile alla cosiddetta “casta” politica che attacca tutti i giorni. Anzi, ne fa parte a pieno titolo, ed è organizzata come un partito, con tanto di divisioni, lotte intestine, trame di corridoio e la presenza di un apparato di mandarini. Ma il punto non sono i costi. Il primo è l’assenza di visione. Il secondo è che Confindustria non è un’istituzione al di sopra delle parti, come cerca di presentarsi. Il terzo è che il discorso a senso unico della casta non è altro che l’ennesima manipolazione politica, che ha precise finalità». A distanza di poco tempo ecco la dimostrazione che l’autore aveva visto giusto: un’associazione che – rispetto a un attacco speculativo contro l’Italia – è diventata protagonista sì ma come una forza di opposizione, che lancia ultimatum politici e che quando propone ricette si “dimentica”, ad esempio, di parlare della riforma del mercato del lavoro. Insomma, un potere che si pone – nei modi e nei contenuti – né più e né meno come una delle tante caste. Anzi come un vero e proprio partito dei padroni. Di cui il Paese non ha davvero di bisogno.