Quella città di pietra sepolta dalla giungla
Le prime notizie su un’incredibile città di pietra completamente sepolta nella giungla cambogiana giunsero in Occidente verso la fine del XVI secolo. A diffonderle furono alcuni profughi portoghesi transfughi da Sumatra, da poco caduta in mano agli olandesi. Il primo resoconto dettagliato sul magico sito invece fu opera dello storico lusitano Diogo do Couto. Costui passò la maggior parte della sua esistenza nelle Indie, delle quali, su ordine di Filippo II, scrisse con imparzialità e precisione la storia. Si ritiene che il cronista abbia raccolto soprattutto la testimonianza di Antonio de Magdalena, frate cappuccino che visitò Angkor attorno al 1585. Lo stupefacente complesso occupa una vasta porzione della piana alluvionale compresa tra il grande lago Tonle Sap a sud e il gruppo montuoso del Phnom Kulen a nord. L’apogeo di Angkor ha abbracciato un lasso di tempo che approssimativamente possiamo collocare dalla seconda metà dell’VIII secolo d.C. alla prima parte del XV secolo d.C. Volendo stabilire una data precisa, l’inizio dell’età dell’oro per la civiltà khmer può essere fissato nel 802. In quell’anno Jayavarman II si attribuì il titolo di Chakravartin (Re del Mondo) dichiarando implicitamente la sua indipendenza dal regno di Giava.
Il tramonto ebbe invece inizio nel 1431, quando gli invasori Thai provenienti da Ayutthaya saccheggiarono Angkor costringendo la corte a migrare a Phnom Penh. E fu proprio in questo lungo periodo compreso fra il 900 ed il 1200 che l’Impero Khmer edificò alcuni dei capolavori dell’architettura mondiale. Non solo Angkor, ma anche gioielli oggi situati ben lontano dal territorio cambogiano. Il top dello stile khmer è costituito dall’architettura religiosa, poiché i soli edifici giunti intatti fino a noi sono di natura sacra. Il fatto è che durante il periodo di massimo splendore di Angkor, solo i templi e gli edifici che comunque rivestivano funzioni ad essi assimilabili erano in pietra. Le opere civili, quali le comuni abitazioni, erano invece fabbricate in materiali deperibili, legno in primis, e non sono sopravvissute al logorio dei secoli. Il gigantesco tempio di “Angkor Vat” si trova all’interno dello sterminato sito archeologico oggi riportato alla luce. L’edificio è stato eretto nel XII secolo, sotto il dominio del re Suryavarman II. Il delubro, di forma rettangolare, misura circa 1,5 km sul lato che va da ovest a est e 1,3 chilometri su quello da nord a sud. La struttura è racchiusa da un muro perimetrale lungo 3,6 chilometri ed è circondata da un fossato al cui interno si trovano tre gallerie rettangolari, sistemate una sopra all’altra.
Nel centro del complesso si stagliano cinque torri. Si pensa che il tutto sia stato concepito in origine come mausoleo, un sepolcro destinato ad ospitare le spoglie del re, in modo da poterlo degnamente venerare dopo la morte. Quest’opera ciclopica è stata realizzata in meno di quarant’anni. Secondo quanto ordinato dal re, i lavori sono stati iniziati partendo contemporaneamente da tutti e quattro i lati. Racchiuso, quindi, da un amplissimo fossato e da mura quadrate di circa ottocento metri di lato, Angkor Vat non è altro che un enorme mandala. Esso infatti compendia perfettamente la cosmologia Indù, con le torri centrali che rappresentano i pilastri del Monte Meru (la sede degli dei), i muri esterni le montagne che circondano il mondo, mentre il fossato simboleggia l’oceano. Il tempio vero e proprio ha la forma di una piramide a diversi livelli e la dimora delle divinità è rappresentata dal santuario centrale, collocato in posizione elevata nel cuore del complesso. Le “apsara”, divinità danzanti con sembianze di giovani ragazze, provengono dalla mitologia indiana, ma il loro ampio utilizzo è una peculiarità dei canoni architettonici khmer. Il termine è comunemente usato per indicare le ninfe del paradiso, sebbene queste ultime siano tecnicamente delle “devata”. Le vere e proprie “apsara” si trovano ritratte nei bassorilievi della “Sala delle Danzatrici “, mentre la maggior parte delle “devata” (circa 2000) si trovano invece raffigurate ovunque ad Angkor Vat, sia singolarmente che in gruppi. Il corrispettivo maschile delle “devata” è rappresentato dai “dvarapala”, guardiani di natura umana o demoniaca generalmente armati di lance o mazze. Spesso appaiono come statue di pietra o sculture a rilievo campeggianti sulle mura di templi ed altre costruzioni di solito adiacenti a ingressi o punti di passaggio obbligato. Essi hanno una funzione protettiva. Nel corso del XV secolo quasi tutto il complesso di Angkor venne abbandonato in seguito all’attacco dei buddisti Thai, ad eccezione di Angkor Vat che, prima di cadere anch’essa nell’oblio, rimase per lungo tempo un centro di pellegrinaggio. La grande città e i suoi templi restarono pressoché nascosti dalla vegetazione fino alla fine del XIX secolo, quando gli archeologi francesi cominciarono un lungo lavoro di scoperta e di restauro. Processo interrottosi nel sanguinoso ventennio che iniziò con la Guerra civile cambogiana e ripreso agli inizi degli anni Novanta da diversi progetti di recupero internazionali.