Quei velieri che a Napoli attendono di riemergere
In una edizione aggiornata dei Misteri di Napoli entrerebbero di diritto a farne parte due eventi: il recupero delle navi della Regia Marina borbonica affondate nella rada di Napoli e il Museo dell’Emigrazione. Era il 1986 e Antonio Parlato consegnava alla segreteria della Camera dei deputati una delle sue numerose interrogazioni avente per oggetto il possibile recupero di alcune navi borboniche adagiate su un fondale di appena venti-trenta metri nella rada di Napoli. Si trattava del vascello “San Gioacchino”, della fregata “Pallade” e della corvetta “Flora”, un totale di 128 bocche da fuoco, fatte affondare dall’ammiraglio inglese Orazio Nelson nel 1799 per impedire che potessero cadere nella disponibilità dell’invasore francese. In realtà avrebbero potuto essere trasferite con la famiglia reale a Palermo. Ma Nelson pensò bene di cogliere l’occasione per ridimensionare il potenziale bellico del Regno delle Due Sicilie, la cui marina costituiva una temibile concorrente nel Mediterraneo e aumentare così l’influenza britannica sull’alleato duosiciliano. Il recupero di queste unità navali rappresentava (e rappresenta) per Napoli e la sua comatosa economia un’opportunità senza eguali. In tutto il mondo, infatti, il recupero dei relitti di antiche navi dal fondo marino, il restauro e la loro valorizzazione è fonte di occupazione e di turismo. Un’enorme massa di visitatori, infatti, annualmente si reca nei vari musei del mare sparsi un po’ in tutta l’Europa: 750mila a Stoccolma, 30mila a Portsmouth, come a Pisa, Marsala, Ostia. Fin dalla seconda metà degli Anni ’80 Parlato intraprese pertanto una martellante opera di sensibilizzazione, per spingere il ministero per i Beni culturali e ambientali e le sue articolazioni periferiche, a compiere una campagna organica di rilievi del fondo marino nella zona interessata al fine di monitorare l’esatta posizione e lo stato di conservazione dei relitti, e individuare le tecniche più adatte al loro recupero. Allo stesso tempo, nella prospettiva di una logica valorizzazione dei reperti navali, lanciò l’idea del “Museo del Mare”, da realizzare negli edifici di quello che fu il Regio Arsenale navale potendo così valorizzare, con l’esposizione del naviglio storico alla fonda, la darsena e il primo bacino di carenaggio in muratura costruito in Italia dai Borbone. Condividendo l’iniziativa del suo collega napoletano, qualche tempo dopo, Pino Rauti, allora deputato europeo, presentò a sua volta un atto ispettivo al Parlamento europeo.
L’idea del recupero delle navi sommerse convinse il presidente della commissione di Strasburgo, Marcelino Oreja, al punto che pose a disposizione delle autorità italiane uno stanziamento di fondi pari a 15 miliardi di vecchie lire per concretare quello che riteneva un progetto di eccezionale interesse storico, culturale e sociale. L’unica condizione che pose fu quella che a presentare il progetto fosse stato un ente locale. Il sindaco Bassolino, dopo aver appreso dell’esistenza del finanziamento europeo, assicurò il suo personale interessamento affinché il progetto di recupero e di valorizzazione delle navi andasse presto in porto. In realtà, il sindaco di Napoli – come i suoi successori – pur avendo ricevuto tutta la documentazione necessaria (maggio ’98) non andò oltre il recupero di un cannone da uno dei relitti sommersi e lo stesso convegno indetto dalla Camera di Commercio, al quale avrebbero dovuto partecipare l’Autorità portuale, la Regione, la Provincia, imprenditori e studiosi, non ebbe alcun seguito per l’indisponibilità inaspettata di Bassolino a parteciparvi. Da quel momento sull’intera vicenda calò una fittissima nebbia.
In quegli stessi anni, a Napoli, si manifestava la volontà di dar vita al Museo dell’Emigrazione. Proposito espresso unitariamente dall’Autorità portuale, dagli organismi periferici del ministero dei Beni Culturali, dal mondo accademico napoletano. Il Museo avrebbe dovuto focalizzare le sue attività sulle ondate migratorie d’inizio ’900 caratterizzate da una fortissima presenza di meridionali. Per offrire ai cittadini come agli studiosi, una sintesi del fenomeno migratorio era stato ipotizzato di ricostruire in maniera virtuale, affidando il progetto a Carlo Rambaldi, autore di effetti speciali cinematografici (E.T. di Steven Spielberg) scene e avvenimenti legati al fenomeno e alla partenza degli emigranti dalla banchina dell’Immacolatella Vecchia. Non a caso, l’Autorità portuale poneva a disposizione per la sede del Museo proprio il settecentesco edificio del Vaccaro. Lo storico palazzo avrebbe quindi ospitato le sei sezioni in cui sarebbero state ripartite le attività del Museo: la Galleria della Memoria, il Viaggio, il Muro della Memoria, Riannodiamo i fili, il Mare, il Centro studi internazionali. L’idea trovò in città un ampio consenso tanto che Bassolino – questa volta nelle vesti di governatore della Campania – a novembre del 2005 costituiva con un atto della giunta regionale, la Fondazione Museo dell’Emigrazione.
Antonio Parlato non si lasciava certo prendere dai facili entusiasmi, ma il fatto che Napoli ricordasse le sofferenze di chi di fronte all’aut aut “o brigante o emigrante” aveva optato per la seconda ipotesi, lo intrigava al punto che – da presidente dell’Ipsema – avviò una fitta rete d’incontri istituzionali per salvare dall’inarrestabile degrado la chiesa della Madonna di Portosalvo da sempre luogo di culto della gente di mare. Nel 2007, Bassolino, con un decreto presidenziale definiva gli organismi della Fondazione Museo dell’Emigrazione, rendendola così operativa.
Passarono due lunghi, inutili, anni. Il Cda del Museo considerata «la prolungata assenza di risposte, da parte della Regione Campania, a una serie di questioni fondamentali per il Museo della stessa Fondazione e per l’avanzamento del progetto del Museo dell’Emigrazione…» rimetteva il proprio mandato nelle mani di Bassolino. Dopo queste doverose e dignitose dimissioni anche questa prestigiosa istituzione (almeno nelle intenzioni) attraccò nel porto delle nebbie. Di quest’altra amara vicenda resta il restauro della chiesa di Portosalvo, ormai in via di ultimazione.
Napoli è stata una grande città. Il suo porto e la sua marina hanno gareggiato alla pari con Francia ed Inghilterra. La sua stessa esistenza è dovuta al mare. Tuttavia, le sue classi dirigenti mostrano di non possedere un’anima marinara. Le grandi città portuali del Mediterraneo potenziano porti e infrastrutture. Mentre da noi, per puro utilitarismo, si preclude ogni possibile espansione del porto, incastrando l’ennesimo porticciolo turistico nella costa di Vigliena. Certo il quadro politico è mutato, ma tale cambiamento non ha dato ancora i frutti sperati. Napoli, nonostante sia passato molto tempo dagli Anni ’50, continua a non essere bagnata dal mare perché è proprio vero come sosteneva l’Ortese che «qui la ragione tace(va) in un silenzio assoluto. Tutto, qui, sa(peva) di morte, tutto è (era) profondamente corrotto e morto».