L’antipolitica può (anzi deve) diventare passione civile
Contrordine: l’antipolitica non è poi così male, non è lo spauracchio da demonizzare e non dev’esserlo soprattutto per il centrodestra. La provocazione l’ha lanciata ieri sul Giornale Marcello Veneziani, osservando che in Italia si respira ormai un clima simile a quello del ’93-’94 che portò alla fine della prima Repubblica. Ma attenzione: il fenomeno è generalizzato, non riguarda solo Berlusconi ma investe il ceto politico nel suo complesso. Scrive Veneziani: «Quando la politica non sa più interpretare il proprio tempo e il proprio popolo, quando balbetta, arranca, sposta le attenzioni su obbiettivi secondari o surrettizi, allora è tempo che si ritorni a estrarre le energie dall’antipolitica». Già, ma a quali energie guardare? La sola rabbia è infeconda e fuorviante, la voglia di pulizia invece sarebbe da apprezzare. Dietro il fenomeno che Veneziani analizza non ci sono solo gli aspetti deteriori ma alcuni che potrebbero supportare una rinascita della vera politica (intesa come gestione delle relazioni tra cittadini finalizzata a una migliore qualità del vivere civile). La spinta che viene dal basso, dunque, potrebbe rappresentare l’input giusto per far riemergere quelle passioni che la politica sembra aver dimenticato. Una voglia di tabula rasa che può rivelarsi creatrice, portatrice di sane novità e soprattutto talmente trasversale da non poter più essere considerata facile preda elettorale dei populismi di varia natura.
C’è anche un non detto nell’analisi di Veneziani: questo vento dell’antipolitica contiene infatti in sé elementi che appartengono a pieno titolo alla sfera della politica, a cominciare dall’istanza di partecipazione, che si è espressa massicciamente nei referendum. Una partecipazione dal basso che non trova sfogo nei partiti tradizionali dove vige il sistema tutt’altro che meritocratico della cooptazione per selezionare la classe dirigente. È su questo specifico punto che il ceto politico, nella sua interezza, appare in grande affanno nel dare risposte e anche le recenti polemiche sulla legge elettorale lo dimostrano, generando due fronti contrapposti (bipolaristi da una parte e nostalgici del proporzionale dall’altro) che eludono il nodo principale del problema, cioè quello di far tornare il cittadino soggetto decisore nell’urna.
Fino ad oggi l’antipolitica ha generato solo un confuso movimentismo mentre dall’altra parte la risposta data è stata quella della sottovalutazione o dell’autoreferenzialità. Di certo però la destra, che nel suo dna ha anche il valore della partecipazione come strumento in grado di far fare al populismo e al richiamo generico alla gente un necessario salto di qualità, non potrà ignorare il problema ancora a lungo, soprattutto in una fase in cui si riflette a livello sociologico sul tramonto delle leadership, modelli ormai usurati nella gestione della mole di speranze, pulsioni e richieste che arriva dalle società complesse. Come saranno allora i partiti del futuro? Magari con leader a tempo selezionati sulla base delle esigenze del momento ma con dietro una rete di cittadini attivi capaci di autoconvocarsi sulle emergenze che si presentano in agenda. Un futuro che ci appare molto lontano ma che potrebbe essere l’esito obbligato dell’attuale fase di trasformazione. Infatti non c’è la bruta protesta da una parte e la politica “alta” dall’altra. Tutto è mescolato e tutto è ambivalente: la scommessa è riuscire a fare incontrare la passione civile che “cova” dietro il sentimento di disagio che investe i partiti con il ceto della politica più consapevole e sperare che da questo mix di buoni propositi scaturisca l’arte di guardare al proprio paese con amore disinteressato. Un obiettivo che la parte migliore della destra non ha smesso di sognare, prendendo in prestito dagli avversari una piccola dose di utopia…