Quella “primavera araba” di bugie e finti blogger
D’accordo, lo stereotipo vuole le donne omosessuali in possesso di tratti particolarmente mascolini, ma la blogger siriana lesbica Amina Arraf forse esagera. Amina ha infatti il volto di Tom, barbuto 40enne americano. Ah, che brutti scherzi gioca internet. Soprattutto ai commentatori frettolosi, agli analisti da Twitter, ai geopolitici laureati su Google. E più in generale a tutti quelli che bevono tutto ciò che il circo mediatico somministra loro.
La beffa di Tom MacMaster
Tom MacMaster, a modo suo, merita un plauso. Prima dalla sua abitazione di Stone Mountain, Georgia, poi dall’università di Edimburgo, dove stava seguendo un master, l’uomo ha finto per mesi di essere Amina, una dissidente siriana – gay, per giunta – pronta a immolarsi per la causa della libertà e dell’informazione non allineata. Le sue cronache sulla “repressione” attuata dal perfido Bashir al-Assad hanno fatto il giro del mondo. Era il trionfo del citizen journalism, la rivincita della comunicazione spontanea, il coraggio che viaggia sulla rete. Non era vero niente. Tom si era inventato tutto. Poi ha chiesto scusa, cosa che certo non basterà a testate “autorevoli” come The Guardian – che sulla storia di Amina avevano puntato con convinzione – per recuperare credibilità. E qui si aprirebbe una parentesi anche sulla stampa estera che con vezzo provinciale continua a essere dipinta dalle nostre parti come la bocca della verità. Ma questa è un’altra storia.
“Fosse comuni” a Tripoli
La storia della cosiddetta “primavera araba”, del resto, è un po’ tutta costellata di episodi simili. Un po’ per l’ingenuità, la faciloneria, la superficialità di certi operatori dell’informazione, un po’ per le imbeccate interessate di qualche furbacchione, un po’ per le due cose combinate insieme. Prendiamo il caso libico. Ok, Gheddafi non è precisamente un leader riformista e illuminato. Diciamo pure che è un satrapo un po’ megalomane. Talvolta ha la mano pesante nei confronti del suo popolo. Ce l’ha da 40 anni, a dir la verità, e la cosa non ha mai fatto troppo scalpore. Poi il vento cambia, diciamo intorno al febbraio di quest’anno. E allora una mattina apriamo il giornale troviamo la cifra di 10.000 (diecimila) vittime civili causate dalla repressione del colonnello. La cifra viene rilanciata dalla tv araba al-Arabiya, che cita le dichiarazioni del componente libico della Corte Penale Internazionale, Sayed al Shanuka, che parla anche di 50 mila feriti. Sono trascorsi pochi giorni dallo scoppio delle rivolte e certi numeri, raggiunti in così breve tempo, fanno impressione. Tutti sbattono la cifra in prima pagina. Poi non se ne parlerà più. Le stime dei giorni successivi saranno tutte molto, molto, molto inferiori a quei 10 mila morti. Ma intanto il panico mediatico è stato scatenato, il resto non conta. Lo stesso dicasi per le “prove” delle fosse comuni libiche. Si tratta di una foto diffusa il 22 febbraio che vede una decina di fosse (comunque “singole”, non certo “comuni”) in allestimento. Il tutto in una località segreta, per nascondere il frutto della repressione del dittatore? Macché, quello ritratto nella foto è il normale cimitero Ashaat di Tripoli.
I “ragazzi di Facebook”
E che dire della balla colossale della rivolta nata da Facebook, da Twitter, da YouTube? Che dire della frottola di una rivoluzione spacciata per spontanea, orizzontale, improntata sui “diritti” e le “libertà” intesi all’occidentale? È il solito vecchio vizio di casa nostra: ricondurre l’ignoto al noto, la complessità allo schema semplice semplice. E così tutti i complicati fattori culturali, religiosi, sociali, politici e geopolitici che hanno portato alle rivolte arabe vengono occultati dietro la storiella dei social network rivoluzionari. Nel loro fondamentale libro Capire le rivolte arabe (vedi box), Pietro Longo e Daniele Scalea sono andati a vedere i dati. E hanno scoperto che «tra i paesi attualmente in fermento, solo il Bahrein ha una diffusione elevata di internet (circa il 50% della popolazione), mentre in Yemen e in Libia è praticamente nulla, in Egitto, Siria e Algeria bassissima. In generale, nel Vicino Oriente meno del 30% della popolazione ha accesso a internet: il dato in Africa si riduce a poco più del 10%, anche se gli utenti si concentrano nella parte settentrionale del continente. In Siria, Libia, Algeria, Iran e altri paesi solo una percentuale infima del già ridotto bacino d’utenza internet usa il portale Facebook». E quindi? I rivoltosi del Maghreb sono tutti delinquenti o agenti del “Grande Satana”? No. Forse hanno persino ragione. Ma dovremmo smetterla di farci le cose più semplici di quelle che sono…