Sparpagliare i ministeri? Idea bocciata
Ministeropoli punto e a capo. Il nome affibiato dai giornalisti all’ultimo vezzo leghista è decisamente brutto, ma anche i contenuti lasciano a desiderare. Dopo la levata di scudi di Roma anche il milanesissimo presidente Silvio Berlusconi ha detto no, non se ne parla di spostare alcuni edifici del potere all’ombra della Madunina. Bossi è convinto che cambierà idea, il sindaco di Roma è pronto a scendere in piazza per difendere le prerogative della Capitale sullo sfondo dell’eterna querelle anche goliardica tra Roma capoccia e i lumbàrd. Sul piano culturale però c’è anche la dialettica tra una visione dello Stato federale e plurale contrapposta o semplicemente diversa da quello di uno Stato che poggia su una comunità politica nazionale compatta e unitaria. A Milano e perché no a Torino? I piemontesi comandati dal governatore Roberto Cota sperano a loro volta di conquistare il ministero del Lavoro o dell’Industria. Sai che indotto…
Ma proviamo a volare un po’ più alto, suggeriscono urbanisti e politici “illuminati”. Hanno l’ambizione di pensare in chiave moderna a quartieri e pezzi di città a misura d’uomo, discutono e dibattono di trasformazione del territorio, di dialettica positiva tra centro e periferia, magari anche con il coraggio di riconoscere la bontà di alcune realizzazioni storiche e monumentali ben riuscite e il fallimento (documentato, dicono) di altrettanti esperimenti da non ripetere.
Premessa: lo spostamento di qualche ministero fuori dalla cittadella politica romana non è un dramma ma neanche una genialata. Sarebbe piuttosto il caso di ripensare lo sviluppo del territorio e della città con un po’ di fantasia in più.
Oltre la provocazione
Decentrare ministeri, assessorati, cabine di regia politiche, disseminarle per il territorio nazionale, al di là della suggestione di un federalismo male interpretato, è contrario al buon senso e all’efficienza. Frammentazione significa aumento dei costi, duplicazione dei servizi, aumento esponenziale di problemi logistici. Pensiamo al “caso-Roma” che è un paradigma: già sono un problema le sedi degli assessorati capitolini in diversi e lontani quartieri della città, figuriamoci che cosa accadrebbe con i ministeri sparpagliati in città distanti chilometri e chilometri. Forse non è un caso, né un capriccio modernista, se Roberto Formigoni ha concentrato nel Pirellone tutti gli uffici della Regione Lombardia e a Roma si pensa, ma è ancora nel cassetto, a un progetto di Campidoglio 2 nel quartiere Ostiense.
La centralizzazione è un grande tema scomparso dal dibattito, dopo gli esperimenti fallimentari degli anni ’60 e ’70 (i centri direzionali) nessuno si interroga più su un modello “ad hoc” per alleggerire il centro storico del peso del Palazzo e delle sue dependence. Tra le numerose sfide all’orizzonte il sindaco Gianni Alemanno dovrebbe accogliere la proposta di realizzare un’area esterna al centro storico dove trasferire le sedi politiche i ministeri ma anche Camera e Senato – azzardano alcuni esponenti del Pdl capitolino – facendo di Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama le sedi più istituzionali, gli incontri con i capi di stato… Potrebbero diventare sedi museali, luoghi espositivi che oggi scarseggiano. Pensate che cosa potrebbe diventare il Ministero del Lavoro di via XX settembre senza il ministero.
L’Eur funziona
Qualcuno in passato aveva immaginato e realizzato quartieri a misura d’uomo (la Garbatella per esempio, modello trasversalmente riconosciuto, non un totem per i nostalgici del Ventennio) o cittadelle polifunzionali appena distanti dal centro storico cittadino. (magari in occasione di un’Esposizione universale, che non si è mai realizzata). All’estero, Parigi in testa, non mancano esempi del genere anche se hanno deluso le aspettative iniziali e oggi somigliano a cattedrali nel deserto, pensiamo a La Défense. Un distretto composto da grattacieli, uffici, condomini e centri commerciali, che sorge su parte dei comuni di Nanterre, Courbevoie e Puteaux (tutti nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine), ad ovest della capitale. Oggi La Défense è il più grande centro direzionale di tutta Europa, ma in tanti storcono la bocca. Non è tutto ora quello che luccica, «in Italia non dobbiamo imparare niente da nessuno, abbiamo le opere più belle del mondo e ottimi architetti tra i giovani». Giorgio Muratore, romano doc, oggi docente di Storia dell’arte e dell’architettura contemporanea presso la Facoltà di Architettura Valle Giulia, sorride agli ultimi capricci leghisti. «Da un lato mi sembra una boiata pazzesca, dall’altro mi lascia piuttosto indifferente, non per questo voglio arroccarsi nella difesa delle prerogative di Roma, pensata da sempre come capitale. Il problema semmai è cambiare la struttura produttiva dell’amministrazione consapevoli che il Ministero come edificio non ha più un valore di simbolo. Spostarne uno o due al Nord non cambia la questione». Sarebbe però un aiutino al federalismo che tutti auspicano… «Non io, sono uno statalista convinto – aggiunge il professore autore tra l’altro di un saggio su Il Palazzo dei Congressi, – putroppo oggi non abbiamo più uno Stato, non abbiamo più una moneta, la vera difficoltà è trovare nuove identità e conservare le tracce di quelle passate perché senza la memoria non c’è identità». Qualche esempio di traccia da salvare? «L’architettura del ventennio, pnesiamo all’Eur, l’esempio più classico, la cui demonizzazione – dice Muratore – è ormai acqua passata, ma anche realizzazioni più recenti, i monumenti degli anni ’60 e ’70, possono non piacere ma sono pezzi di storia comunque». Quella dell’Eur – spiega – è culturalmente una battaglia vinta vent’anni fa, la sua difesa e riscoperta è una conquista condivisa». Ma «faceva parte di un disegno più complessolo che doveva completarsi con lo sbocco al mare. Progettato negli anni trenta del Novecento in previsione di una Esposizione Universale mai svoltasi, il complesso ospita alcuni esempi di architettura razionalista, che convivono con edifici moderni edificati nei decenni successivi.
Anche il brutto è memoria?
Ci teniamo anche le cose brutte? «Certo di fronte a un quartiere costruito male viene voglia di tirarlo giù. A Roma viene in mente Corviale, sono contrario alla sua sostituzione, è sbagliato il concetto come quando qualcuno diceva abbattiamo il Colosseo quadrato, solo per questioni ideologiche». Anche per Orazio Campo, vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Roma e docente universitario, non sono certo due ministeri trasferiti altrove a far cambiare volto alla capitale. «Una città funziona quando è dotata di un complesso di strutture e servizi». Non gli piace l’idea di una cittadella ministeriale e in generale la prospettiva di aree monofunzionali. Campo guarda a modelli polifunzionali, all’integrazione di «elementi diversi». Dunque il trasferimento di un ministero da una città all’altra di per sé non significa nulla se non in una logica di derby politico tra Nord e Sud, ha un senso per lo sviluppo, la modernizzazione e l’efficienza se lo accompagni alle relative infrastrutture in un sistema armonico. «Non è solo una questione di metri cubi. Ci devono essere residenze, commercio, servizi in modo tale che quella parte di città esista sempre, al di là dell’attività dei ministeri o delle sedi politiche. Dovrebbe funzionare così ovunque, non vanno bene i quartieri dormitorio così come non si possono immaginare porzioni di città che dopo le 17, quando chiudono gli uffici, diventano quartieri fantasmi». Non a caso il Piano regolatore di Roma (approvato nel 2008) immagina un modello di quartiere, anche in periferia, costituito da un centro, con una funzione importante, intorno al quale ruota l’aggregazione di altre attività. Insomma Bossi, non ce ne voglia, ma deve ancora studiare un po’.