Da “Gabbo” a Nanni De Angelis: quelle vite spezzate

16 Mag 2011 19:41 - di

I loro nomi campeggiano sui muri, risuonano negli stadi, vengono stampati nei volantini. Meno, purtroppo, echeggiano nelle aule dei tribunali. Sono le vittime dello Stato. Degli apparati di questo. Molti di loro finiscono nel dimenticatoio. E, qui è il punto, è lo stesso Stato che si “dimentica” di questi suoi cittadini. L’ultimo dato è arrivato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere: «In quarantott’ore due suicidi e una morte per cause “da accertare”». Ma in Italia si muore nelle piazze, o in mezzo a una via di notte o mentre ci si appresta a rimettersi in carreggiata da un autogrill. Proprio su una di queste vittime, Stefano Cucchi – di cui ieri è stato il momento dell’audizione – si è detto tanto, grazie alla campagna che la famiglia e molti parlamentari continuano a portare avanti. Il caso Cucchi è paradigmatico perché al suo interno coinvolge medici, infermieri e agenti di polizia penitenziaria: tutti protagonisti che – in un modo o nell’altro – compongono quel mosaico di omertà e protezione che non permette la risalità verso la verità. Una scia, quella della violenza dello Stato, che negli ultimi anni ha visto uomini delle istituzioni al centro di casi che hanno scosso l’opinione pubblica: da quello di Gabriele Sandri a quello di Federico Aldovrandi. Storie diverse ma che hanno come filo conduttore questo vulnus tra istituzioni e cittadini.

Se lo Stato uccide
La domanda a questo punto è chiara: quando lo Stato riuscirà a essere intransigente con i proprio uomini? «Purtroppo, al momento, non lo è. Lo abbiamo riscontrato in tutti i casi di cui ci siamo occupati». A parlare così è Tommaso Della Longa – coautore, assieme ad Alessia Lai, del volume Quando lo stato uccide (Castelvecchi, pp. 256 € 16) – che ha raccontato le storie di violenza e i perché del silenzio. Il punto è che «queste vicende quando escono allo scoperto avviene grazie ad alcune persone coraggiose, avvocati, pm o famiglie. Solo così si arriva a quel punto di rottura in cui la verità viene fuori». Anche quando ci sono delle condanne poi – spiega Della Longa – «accade che ci si trova davanti a una sproporizione evidente». Esemplare è il caso di Gabriele Sandri, il giovane tifoso della Lazio centrato da un proiettile esploso da un’agente: «Il poliziotto che ha sparato non prende più di dieci anni di condanna ed è a piede libero. I ragazzi che hanno fatto gli scontri la sera dopo l’omicidio si sono presi tra i 7 e 15 anni e sono in carcere». Proprio questo, allora, pone al centro un altro interrogativo: la responsabilità è anche di chi dovrebbe garantire pene più giuste? «Le responsabilità sono a tutto tondo. È un sistema che purtroppo sia per il quadro legale sia per una sorta di omertà risulta colpevole». Un caso, affrontato nel libro, ha dell’incredibile. «Quello di Riccardo Rasman, l’uomo che è morto in seguito all’irruzione degli agenti che lo hanno immobilizzato con il fil di ferro. Ebbene, i pm hanno affidato le indagini agli stessi poliziotti che hanno fatto irruzione…».

Una lunga storia di torti
Ma quella della violenza dello Stato è una storia lunga. Che riporta inevitabilmente alla stagione degli anni di piombo dove furono tanti gli episodi – alcuni ancora irrisolti – in cui furono coinvolti gli uomini dello Stato: che hanno colpito “allora” fino ad arrivare ad “oggi”, con Federico Aldovrandi e Carlo Giuliani. Tutto ciò è raccontato in Quando hanno aperto la cella (il Saggiatore, pp. 243 , € 19) dove l’ex senatore Luigi Manconi e Valentina Calderone riallacciano il filo tra quegli anni e i giorni nostri. Tra le vicende più significative vi è quella di Nanni De Angelis, uno dei tanti ragazzi di destra vittima della stagione degli anni di piombo. Proprio la vicenda di De Angelis – sulla cui scomparsa si è cercato di montare il caso del suicidio quando è evidente dai referti che il ragazzo fu selvaggiamente picchiato dagli agenti dopo un’odissea scaturita dopo il suo fermo – è definita «un modello di trattamento» con cui le forze dell’ordine intendevano fare i conti con determinati soggetti politici. Concetto confermato dalle parole forti di Leonardo Sciascia – riprese dal libro – che confermano come storicamente i due pesi e due misure siano stati applicati purtroppo anche per ciò che riguarda la battaglia garantista: «Fra le cose – scriveva – che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro. Ma, ahimé, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo».

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