Hanno ucciso i propri figli: le madri “curate” con il lavoro e la busta paga

21 Mar 2015 9:00 - di Liliana Giobbi

Un sistema di “recupero” destinato a dividere l’opinione pubblica e la politica. Le sei madri figlicide ospitate nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, così come le altre pazienti nella struttura, ogni mattina si alzano intorno alle 8. Poi, ognuna inizia la propria “giornata lavorativa”: chi nelle cucine per preparare i pasti, chi nelle squadre per le pulizie, chi nella lavanderia, chi nella gestione del bar interno. Anche il lavoro è considerato una terapia. E a fine mese ciascuna riceve una busta paga ufficiale, sulla base dell’attività e delle ore lavorate.

Le madri figlicide e i tentativi di recupero

Un primo passo verso il recupero dell’autostima e dell’autonomia. «Il lavoro – spiega all’Ansa la psichiatra Stefania Forconi, che cura queste donne – ha un valore di terapia, aiutando a dare un senso alla giornata, scandendo i tempi, ma anche motivando le persone. Queste, come le altre pazienti, ricevono una busta paga a fine mese per le attività che svolgono. Si tratta di un massimo di 400 euro, ma l’importo varia a seconda dell’attività e delle ore lavorate». Una somma che rappresenta una giusta ricompensa, «un recupero dell’autostima, ma anche – afferma – un passo verso l’autonomia economica per far fronte a piccole spese personali». La chiamano “ergoterapia”, appunto la terapia del lavoro, che va ovviamente ad affiancarsi alle cure farmacologiche ed al fondamentale sostegno psicologico. Le madri figlicide, sottolinea la psichiatra, «sono infatti donne con una patologia mentale. Va però chiarito che, nella maggioranza dei casi, le donne che commettono tale tipo di reato lo commettono in una fase di patologia psicotica acuta. Ma la fase acuta, con un trattamento appropriato, spesso “rientra” ed è possibile riacquistare un equilibrio psichico». Ma si può parlare di vera e propria guarigione? L’obiettivo, per le madri figlicide, dice la psichiatra, è riuscire a riappacificarsi con se stesse, capendo che a commettere il reato è stata “un’altra sé”, la “sé malata”.

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