Lezioni di democrazia
Il messaggio di Atreju: libertà di confronto, ma basta anatemi contro la destra
Superare le diffidenze per restituire spazio alla partecipazione, al dialogo autentico tra le parti e al senso di comunità
«Secondo una tradizione orale da me raccolta a Ginevra negli ultimi anni della prima guerra mondiale, Michele Serveto avrebbe detto ai giudici che lo avevano condannato al rogo: “Brucerò, ma questo è soltanto un fatto. Continueremo a discutere nell’eternità”» (J.L. Borges, Storia dell’eternità).
Intendiamoci: fanno bene ad andarci. È un dato importante, molto positivo. Parlo della festa di Atreju. E di tutti i politici, sindacalisti, intellettuali, giornalisti, che vantano un’appartenenza progressista. Io ne sono felice, lo scrivo. Per spiegarlo bene, ci vorrebbe più di un pezzo.
Sintetizzo: negli inviti accettati ci vedo la realizzazione di una delle aspirazioni della destra “antiqua” alla riconciliazione nazionale, il respiro bipartisan delle leggi elettorali Mattarellum e Tatarellum, le luci dei primi governi di centrodestra, le intuizioni condivise della Bicamerale D’Alema (in primis riforme delle istituzioni e della giustizia); il selciato accidentato verso una compiuta democrazia dell’alternanza, in cui ambedue i poli, conservatore e progressista, competono per il governo della Repubblica; lealmente e ad armi pari: deponendo anatemi, scomuniche, propagande, soppiantate dalla reciproca legittimazione.
Partecipazione, mai più maledizione
Il che vuol dire: rinunciare alla “maledizione” della destra, segnare un comune terreno, un lembo minimo di valori e simboli sganciato dalla transeunte collocazione al governo o all’opposizione. E dismettere la finzione di una Costituzione schiaffeggiata ogni giorno sulla “rive droite”; uno spettacolo deprimente che offende il ruolo del Colle più alto e umilia il buon senso, l’intelligenza collettiva.
Dico: se vai a un evento organizzato dal partito della presidente del Consiglio che additi, anche extra moenia, sempre e a prescindere, come strega cattiva che mette a rischio la nostra democrazia; se FdI, la prima formazione politica del Paese, lo descrivi scosso da rigurgiti di nostalgia, popolato da abitatori autoritari, da brigate d’assalto all’indipendenza dei giudici; da complici del “genocidio” palestinese, dai custodi di una fiamma d’antan che non vogliono spegnere — né loro, né il trenta per cento degli elettori — e no: non ci vai; non si va. Non si può, non si deve andare in un postaccio così.
Una fase nuova di coerenza e di civiltà politica
Ma se ci vai — e hai scelto di farlo da anni — è giunta l’ora di essere coerente, in positivo: dopo la festa, devi cambiare registro. Non puoi non aprire una nuova fase: di maggiore correttezza, di civiltà politica. Di un logos diverso, che dia spazio al dialogo tra differenti e opposti: ciascuno nel proprio ruolo, esercitato con energia, ma senza provare più a spingere l’avversario “fuori”.
Accettare la proposta di confrontarsi, discutere, dire la propria, illustrare le tue ragioni di fronte a una platea che ti ascolta e ti rispetta, significa che lo sai: chi ti ospita “a casa sua” ti dà diritto e voce per parlare, anche contro. È il massimo della tolleranza: non sei capitato per caso “in uno dei peggiori bar di Caracas”. Può un movimento politico e una classe dirigente, può — in cima ad essa — una leader-premier, metterti a tuo agio in un’agorà di partecipazione e di libertà ed essere accusata, a giorni alterni, di comprimere i diritti e le libertà? Ecco: benvenuti ad Atreju.