Partito della Nazione: ecco perché la ricetta Meloni funziona. Cartolina per Galli della Loggia

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Partito della Nazione: ecco perché la ricetta Meloni funziona. Cartolina per Galli della Loggia

Fratelli d'Italia rappresenta la formula più vicina al «partito della Nazione»: nelle forme e nelle dimensioni di un movimento di massa che non può (e non vuole) presentarsi più come le "chiese" del '900. Il punto vero è chiedere se esista una sinistra altrettanto capace di trovare dei momenti di sintesi nazionale

L'Editoriale - di Antonio Rapisarda - 23 Dicembre 2025 alle 06:00

È sempre interessante leggere le analisi e perlustrare gli exempla di Ernesto Galli della Loggia: anche quando – come è avvenuto con il suo editoriale di ieri apparso sul Corriere della Sera – non ci si trova d’accordo sulla tesi di fondo. Il professore presenta un parallelismo fra le elezioni del 1948, stravinte dalla Dc di Alcide De Gasperi, e le Politiche del 2022, con la storica vittoria della destra di Giorgia Meloni che diventerà la prima donna presidente del Consiglio. Due momenti importanti della storia repubblicana, senz’altro, ma che rispondono a due epoche assai diverse: da un parte le prime elezioni dopo la caduta del Fascismo, dall’altra una tornata epocale sì ma per il risultato, dato che – almeno sulla carta – ci troviamo da tempo in una democrazia dell’alternanza. Sia come sia, ad accomunare il nume tutelare della Dc e la leader di Fratelli d’Italia, secondo lo storico, è il fatto di essere entrambi outsider del proprio tempo: vincenti nonostante fossero giudicati il «clerico-fascista» e «la fascista tout court», rispettivamente secondo l’establishment azionista e progressista. Fin qui un’analogia fra i due affascinante e accattivante.

Ma il punto sul quale divergiamo dall’editorialista del Corriere è un altro. In soldoni Galli della Loggia rileva un diverso approccio fra De Gasperi e Meloni nei confronti delle culture politiche di prossimità: il primo – pur avendo ottenuto alle elezioni la maggioranza assoluta – scelse di governare e indicò (anche al Quirinale) personalità non strettamente legate alla cultura cattolica e alla Dc. La seconda, si legge, «non fa un passo fuori dal recinto del suo partito o della sua coalizione». Morale? De Gasperi ha così plasmato la Dc come «partito della Nazione»: cosa che Meloni, seppur in chiave internazionale ha dimostrato «indubbie capacità», per Galli della Loggia non riesce a fare. Il motivo? Si troverebbe «nelle pieghe oscure della psicologia». Ci sarebbero «due Meloni» nella stessa Giorgia: una, quella all’estero, «decisa sostenitrice dell’interesse nazionale»; l’altra, di stanza a Roma, «rinchiusa nel bunker di partito».

Un’analisi quanto meno ingenerosa: per una serie di ragioni. Prima di tutto, come abbiamo più volte sottolineato, l’operazione di allargamento di Fratelli d’Italia, per espressa volontà della sua leader, è già avvenuta. Da tempi non sospetti, se pensiamo che da Guido Crosetto (fra i fondatori di FdI) a Marcello Pera, da Raffaele Fitto a Giulio Tremonti, sono tante le personalità che provengono da culture liberal-democratiche, democristiane, socialiste e laiche e che oggi hanno ruoli di primo piano nella piattaforma politica della destra. Stesso discorso per la compagine di governo: basti pensare ai ministri Carlo Nordio, Eugenia Roccella, Maria Elvira Calderone o lo stesso Matteo Piantedosi. Ciascuno ha un curriculum politico-culturale del tutto eterodosso rispetto alla tradizione della destra post-fascista. Non si comprende, davvero, come si possa sostenere che la premier abbia agito solo con chi ha «il suo stesso gruppo sanguigno».

Questa apertura alle migliori proposte della cultura nazionale la si riscontra anche nel sostrato stesso delle riforme: quella della giustizia e della separazione delle carriere nasce sull’impianto del nuovo codice di procedura penale frutto di un antifascista come Giuliano Vassalli. Quella dell’autonomia differenziata proviene da una battaglia storica del Carroccio “delle origini”: di certo non assimilabile filologicamente alla storia della destra nazionale. Quanto al premierato: la proposta stava sul celebre “libretto verde” con cui l’allora Pds si candidava a governare l’Italia nel 1994. Per non parlare dei due progetti più ambiziosi del governo Meloni, riguardanti la politica di cooperazione e sviluppo e l’alfabetizzazione e la cultura comunitaria – il piano Mattei e il piano Olivetti –, intitolati a due grandi italiani di cultura progressista. Come si può vedere, insomma, la premier non ha avuto alcun freno inibitore: ha percorso, ha assimilato, ha declinato tutto ciò che a suo avviso è necessario per attrezzare l’Italia di istituzioni più forti e renderla più competitiva. A partire proprio dalle fondamenta della politica interna.

Giorgia Meloni ha dato prova di voler e saper mettere al primo posto interesse nazionale anche con l’altro da sé. Lo fece quando si schierò, da leader dell’allora opposizione, a fianco dell’Ucraina: una posizione per nulla facile nei confronti di una certa sensibilità multipolarista che attraversa pure l’elettorato della destra. E ancora prima, ai tempi del governo giallo-rosso, quando non si oppose allo scostamento di Bilancio che andava a sostenere l’Italia bloccata (pure eccessivamente) dalle misure anti-Covid. Questo approccio ha rappresentato lo scatto in avanti agli occhi di quell’establishment “buono”, rappresentato dalle forze vitali dell’economia e della società civile: da Confindustria a Coldiretti, da Comunione e liberazione alla “nuova triplice” che ha dibattuto non a caso ad Atreju, quella formata dalla Cisl, dall’Ugl e dalla Uil. Con la Cgil ormai (auto)esclusa da ogni consesso riguardante il dibattito laburista.

Alla luce di questo portfolio è difficile negare che oggi Fratelli d’Italia rappresenti la cosa più vicina al «partito della Nazione»: nelle forme e nelle dimensioni di un movimento di massa che non può (e non vuole) presentarsi più come le “chiese” del ‘900. Casomai il punto vero è chiedere se esista una sinistra altrettanto capace di trovare dei momenti di sintesi nazionale, di sinergia su alcuni dossier fondamentali per l’Italia in un contesto mondiale così turbolento. La domanda, insomma, non è o non dovrebbe essere quante Meloni vivono in Giorgia ma quando – dall’altra parte – ne spunterà almeno “mezza”. Sarebbe già tanto.