“Affari di libri”, dieci scrittori e scrittrici si raccontano con Mariagloria Fontana sull’arte del narrare

22 Apr 2022 16:44 - di Vittoria Belmonte
Fontana Affari di libri

Uscirà in libreria il 28 aprile “Affari di libri” (Giulio Perrone editore), il nuovo libro di Mariagloria Fontana, giornalista e conduttrice radiofonica, già autrice del romanzo “La ragione era carnale”.

In questo testo dieci scrittori – cinque uomini e cinque donne – salgono sul palcoscenico e si tolgono la maschera. Raccontano se stessi. Tra professione e vita privata, strumenti del mestiere e ossessioni. Mariagloria Fontana li ha incontrati dentro e fuori il suo programma, Affari di libri, che dà il titolo al nuovo libro. E insieme hanno cercato la risposta alla più insondabile delle questioni: che cos’è la scrittura e chi è uno scrittore? Le cinque scrittrici sono Teresa Ciabatti, Viola Di Grado, Chiara Gamberale, Lisa Ginzburg, Nadia Terranova. I cinque scrittori sono Roberto Cotroneo, Andrea Pomella, Marco Missiroli, Luca Ricci, Emanuele Trevi.

Mariagloria Fontana, il tuo libro è una ricerca sul ruolo dell’artista narrante, che cerca bellezza e senso con le parole. Tu citi Pamuk, nell’introduzione: l’artista ha doveri solo nei confronti della sua arte. Gli scrittori che hai scelto per il tuo “Affari di libri” quanto sono d’accordo con questa affermazione?
Pamuk cita una risposta di Faulkner in una intervista alla Paris Review. Non tutti gli scrittori presenti nel mio libro sono d’accordo, alcuni di loro la ritengono una visione troppo “romantica”, nell’accezione del romanticismo quale movimento letterario, ad esempio Roberto Cotroneo. Invece, Marco Missiroli dà un’espressione più ampia del concetto di “demoni” (i demoni che guiderebbero l’artista) e sostiene che vanno accolti e vissuti senza tentare di correggerli, perché questo aiuta la scrittura. Teresa Ciabatti alla mia domanda ha detto: io rispondo ai miei morti, sono loro i miei demoni. Lo trovo bellissimo e molto shakespeariano.

Anche tu sei una scrittrice. Alla luce delle conversazioni letterarie che hai fatto e anche in base alla tua esperienza ritieni che la narrativa sia un’arte, un dono o una necessità?
La narrativa è sicuramente un’arte, un dono nel senso del talento che è effettivamente qualcosa che prescinde da tutto e se non c’è non puoi crearlo. E anche una necessità nell’accezione di un’urgenza interiore. Non sai perché un giorno inizi a scrivere, lo fai e basta. Però, detto ciò, non esiste scrittura, non esiste perciò la narrativa, senza disciplina, senza esercizio, metodo e senza tecnica. Altrimenti diventa un semplice sfogo e la narrativa non è certo questo. Esistono anche romanzi pieni di tecnica e di stile, ma privi di talento, una sorta di “scintilla” a mio avviso che è un po’ quello che diceva Franz Kafka: “Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”. La narrativa autentica è l’unione di tutti questi elementi che ho appena citato in cui brilla il talento ovvero l’ascia kafkiana.

Dei dieci scrittori italiani che hai scelto per questo libro ce n’è uno o una con cui ti senti più affine, anche se scrivi di averli amati tutti?
In verità è proprio come ho scritto, li ho amati tutti, tanto è vero che li ho scelti per questo libro. C’è però qualcuno con cui si è creato un rapporto più forte per tanti motivi, per affinità indubbiamente, per ragioni anagrafiche e di genere e per
circostanze abbastanza impreviste, come la nascita delle nostre due figlie, la mia, Nora, e la sua, Luna. Mi riferisco a Nadia Terranova con cui sento di avere molto in comune in questo momento della mia vita. Eravamo, e siamo, due femministe convinte, donne indipendenti, libere, eppure ci siamo ritrovate a fare i conti con la maternità che è un’esperienza bellissima, unica, ma anche difficile. A Teresa Ciabatti mi lega un affetto profondo e anche un’empatia che ha le sue radici, probabilmente, nelle figure delle nostre madri seppure nella loro diversità.

Cinque autori e cinque autrici. C’è una differenza tra la scrittura maschile e quella femminile?
Secondo molti dei miei interlocutori no, ma per come la vedo io sì. Mi piace sempre citare un articolo del New Yorker che porta la firma della scrittrice Adelle Waldman, l’autrice di Amori e disamori di Nathaniel P., pubblicato da Einaudi. Lei sostiene che questa differenza si esplichi soprattutto nel modo in cui gli uni e le altre descrivono l’innamoramento e l’amore. Fa esempi illustri che vanno da Tolstoj a Knausgard, da George Eliot a Jane Austen. Negli uomini l’idea romantica sembra appoggiarsi al concetto di amore come una profonda, misteriosa attrazione, invece per le scrittrici
l’innamoramento, l’amore, è più l’idea di una collaborazione con un’anima, una persona unicamente in grado di comprendere la propria vita interiore. Poi, semplicisticamente, credo che Michel Houellebecq se fosse stato una donna non avrebbe scritto quei romanzi, così come Philip Roth.

Infine Nora Ephron. Una sorta di spirito guida per te. Da dove nasce questa passione?
Avevo dodici anni e al cinema uscì una commedia deliziosa, dai dialoghi spassosi, originali, irriverenti, originali, Harry ti presento Sally, la regia era di Rob Reiner ma la sceneggiatura la firmava Nora Ephron. Da qui iniziai a documentarmi e a vedere tutti i suoi film, nel tempo era diventata anche regista come sai. I suoi libri, gli articoli, il suo senso dell’umorismo, la sua sagacia, mi hanno conquistato. Era come se Woody Allen avesse un suo equivalente femminile, ma con meno cinismo, più vicino alle donne e al nostro sentire. Insomma, per me è stato un grande amore, purtroppo non l’ho mai intervistata. Ho dato il suo nome a mia figlia. Quest’anno sono dieci anni dalla sua morte.

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