Giacomo Boni, custode delle vie sacre della romanità. Un libro ne ricostruisce vita, idee e scoperte

19 Feb 2022 19:56 - di Annalisa Terranova
Giacomo Boni

“Esplorai il centro di irradiazione della civiltà nostra per ricercare la vita nelle stratificazioni più profonde. Nelle antichissime leggi tradizionali vidi luce di vita molto maggiore che nei modernissimi ordinamenti. E nelle primitive capanne qualcosa di meglio che le nuove case di Berlino così nuove eppure così avvizzite e nate morte”. Così semplificava la sua passione per l’archeologia Giacomo Boni, veneziano, nato nel 1859 e morto nel 1925, senatore del Regno per volontà di Benito Mussolini, sepolto con gli onori dovuti agli uomini illustri sul Palatino. E definito da Ugo Ojetti “Uno degli uomini più singolari e affascinanti di questo secolo”. Uno dei grandi italiani rimossi, ma che vale la pena conoscere e scoprire. Il Foro Romano-Palatino, nella sua attuale conformazione, si deve alle sue scoperte e ai suoi scavi col metodo stratigrafico.

Ci guida in questo cammino la densa e accurata monografia di Sandro Consolato, Giacomo Boni. Scavi, misteri e utopie della Terza Roma (Altaforte, pp.504, euro 26). Una biografia che si legge come un romanzo storico, corredata da un poderoso apparato di note. Un testo di livello scientifico ma accessibile anche al lettore comune, che ne ricaverà particolare interesse soprattutto se nato o residente a Roma.

Roma è infatti l’idea-guida di Giacomo Boni. Figura che Sandro Consolato incontra casualmente nel 1989, imbattendosi nella sua tomba, “a luglio, stesso mese della morte dell’archeologo, in viaggio di nozze, costretto a passare una non prevista giornata a Roma, gironzolando sul Palatino”. Da allora, scrive l’autore, “il grande e per troppo tempo dimenticato Veneziano ha fatto parte del mio ‘larario’ “.

Già dal 1879 Boni partecipa ai lavori di restauro del Palazzo Ducale e forgia una sua idea di conservazione dei monumenti da tutelare nella loro autenticità e nel loro carattere storico. In contatto epistolare con i preraffaelliti William Morris e John Ruskin – che incontrò a Pisa nel 1882 – ne ricavò la passione per le epoche più antiche. Ma anche un gusto estetico fiorente affinato all’Accademia di Belle Arti dove studiò architettura e scultura. Nella bottega d’arte fondata da Morris conobbe l’architetto Philip Webb che lo incoraggiò a occuparsi dei problemi del restauro, gradino che consentì a Boni di incamminarsi verso il culto di Roma. Studiò inoltre il latino e il greco, il tedesco e l’inglese.

Dal 1888, nella città eterna, cominciarono le sue esplorazioni artistiche. Che lo portarono come direttore dei lavori di scavo nel Foro a scoperte fondamentali, alle quali giunse unendo alle competenze di architetto, ingegnere, scavatore, esperto di scienze naturali la conoscenza profonda delle fonti letterarie classiche. Tutti elementi che la sua allieva, Eva Tea, sottolineerà più tardi nella biografia del maestro, in cui fa presente come Boni cercasse di avvicinare il nucleo storico alla leggenda. Rifiutando perciò di considerare i miti dell’antica Roma pure favole di menti primitive, ma considerandoli al contrario archetipi valoriali capaci di illuminare in eterno una civiltà.

Nella sensazionale scoperta del Lapis Niger, il nostro archeologo si convinse di essere guidato da uno spirito arcano. Seguirono altri importanti ritrovamenti: il granaio sacro della Regia, dimora dei pontefici, il Sacrarium Martis, le esplorazioni nel Sacrario di Vesta, la Fons Iuturnae, il vasellame rituale della casa delle Vestali. Riportò inoltre alla luce la chiesa di Santa Maria Antiqua.

Scrive Eva Tea a proposito della fonte di Juturna rinvenuta da Boni: “Boni annetté sempre sommo valore alla scoperta del sacrario di Juturna, come complemento del nucleo dei maggiori sacrari, dedicati al fuoco, all’acqua, alla terra. Le tracce del culto tributato alle tre Diane gli facevano vedere nella pura fonte un simbolo della sana vitalità romana“. Così i ruderi di Roma avevano trovato “in quello scavatore poeta il loro magico interprete”.

Il 21 aprile del 1900 due visitatori illustri si recarono agli scavi diretti da Boni, i sovrani Umberto I e Margherita. Quattro anni dopo, ancora in aprile, la scoperta del Lacus Curtius. La voragine apertasi al centro del Foro dove, secondo Tito Livio, i romani avrebbero dovuto gettare la cosa più preziosa per il popolo. Marco Curzio vi si gettò col suo cavallo consacrandosi agli dei Mani mentre il popolo gli lanciava frutti e offerte votive. Un sacrificio per il bene della patria che per Boni aveva un enorme valore simbolico tanto che vi invitò Horatio Brown per onorare l’antico cavaliere romano secondo gli usi pagani, cioè “per versare una libazione di vino sulle ossa del valoroso che sentiva di avere una patria”.

Dal 1910 Boni si trasferisce sul Palatino, insediandosi nella casa-studio dentro gli Horti Farnesiani, luogo dove ebbe modo di esercitare anche la sua attitudine di botanico e giardiniere. Qui cresceva una palma presso la quale Eleonora Duse, con la quale Boni era in corrispondenza, “prese lieti auspici per l’Italia” nel 1915, all’inizio della Grande Guerra. Qui, ancora, si recò in visita nel 1923  il poeta Ezra Pound, che si intrattenne con Boni e narrerà poi l’avvenimento in una lettera alla madre.

Sul Palatino, area in cui avvertiva una sorta di “sacralità primitiva”, ritenne di avere individuato il granaio sacro di Cerere. Qui avvenne anche il primo incontro con Eva Tea, e parlarono di Lao-Tzu. E ancora qui sentì la necessità di propiziare con l’esercizio della pietas la vittoria italiana, divenendo in qualche modo archeologo-sacerdote. Non a caso nei primi mesi del 1918, quando le truppe italiane contenevano gli austriaci lungo il Piave, Boni ritrova il frammento di una Nike del V sec. a.C. e ciò grazie alla demolizione di una torre dei Frangipane, famiglia che si vantava di essere capostipite degli Asburgo.

Mostrando la Nike palatina al poeta francese Pierre de Nolhac Boni espresse in breve, nella conversazione, la sua filosofia della storia: “Penaste ciò che rappresenta questo luogo eminente nello sviluppo del nostro pianeta. Esso è centro d’irradiazione della più nobile civiltà del mondo. E’ il colle consacrato dal re Evandro; ove prima fu scavato nella roccia quel granaio di Stato, il Cereris Mundus, primordiale istituzione di uno Stato organico, ove sorse con auspicii possenti la città di Romolo, culla delle idee per cui oggi lottano e si sacrificano i popoli liberi”. Il suo ruolo di sacerdote della religio Patriae lo avvicinò alle idee di D’Annunzio e poi a quelle di Mussolini, nel quale l’archeologo intravide un novello Crispi capace di rinnovare la tradizione romana e risorgimentale. Per le nuove monete da 1 o 2 lire sotto il fascismo fu proprio Boni, poi, a disegnare il fascio littorio con attento studio della sua forma originaria. Simbolo poi adottato a livello nazionale il 12 dicembre del 1926.

Giacomo Boni era morto il 10 luglio dell’anno prima, il 1925, dopo che una formidabile tempesta si era scatenata sul Foro. Fu sepolto dopo solenni funerali negli Orti Farnesiani, vicino alla palma che aveva attratto Eleonora Duse. Annota Consolato: “Una ragazzina alunna della sesta elementare di cui non sappiamo nient’altro che il nome, Noemi Minzoni, durante lo scavo della fossa aveva raccolto tre foglie di lauro nei pressi dell’ormai celebre palma, per inviarle a Gabriele D’Annunzio con una lettera che così recitava: “Queste tre foglie ho portato religiosamente a casa per offrirle in un rito di devozione al Grande Poeta Soldato. Eccole!”.

Consolato non trascura, infine, quello che lui stesso chiama il Boni “minore” ma non meno interessante: il cultore delle tradizione indiane, lo studioso del Giappone, l’amante delle antichità celtiche che lo indussero a un viaggio in Irlanda. Aspetti che fanno di Giacomo Boni un sapiente, un erudito “completo”, il quale concepì l’archeologia non come una semplice scienza e basta, ma come “una disciplina che può condurre alla scoperta e alla conoscenza delle leggi che regolano la vita umana nel suo complesso”.

 

 

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