Noam Chomsky contro la cancel culture. Belardelli: in Italia non serve, la storia è già ai margini

16 Dic 2021 11:48 - di Francesco Severini
cancel culture

Anche il pensatore esaltato dai no global di sinistra Noam Chomsky bacchetta la cancel culture. E lancia un monito alla cultura progressista che ha sposato il filone culturale “woke”. Quella sinistra che difende con maniacale attenzione i diritti delle minoranze: gay, trans, neri, donne.

L’intervista di Noam Chomsky

In un’intervista al quotidiano Domani, ha parlato della deriva della politica identitaria. Ha inoltre sostenuto che la vera sinistra dovrebbe occuparsi delle diseguaglianze socio-economiche. “Le persone si possono definire come vogliono”, spiega, “ma la sinistra tradizionale si preoccupava di problemi di classe. È vero che tante persone che hanno idee progressiste su temi politici e così via, si preoccupano anche dei diritti delle donne, dei diritti delle minoranze e così via”.

Chomsky: se non ci piace il punto di vista di qualcuno non lo si caccia dal campus

Tuttavia, “quel tema particolare della politica identitaria è sostanzialmente distaccata dalla sinistra”. Per Noam Chomsky se di qualcuno non apprezziamo i punti di vista “non bisogna cacciarlo dal campus. Non si interrompono i suoi incontri. Non si vandalizza il suo ufficio. Né gli si mandano minacce di morte. Si lascia che venga nel campus e che parli. Ho creduto in questo da sempre, ed è stata una vita solitaria per questo motivo”.

Belardelli: in Italia la cancel culture non serve, c’è troppa ignoranza della storia

In Italia, annota Giovanni Belardelli sul Foglio, al momento “prevale un’altra forma di cancellazione della storia: la pura e semplice ignoranza del passato“. Sono i politici a dimostrarlo in varie occasioni. E Belardelli cita la dichiarazione di Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio, “che due anni fa ricordava incredibilmente l’8 settembre 1943 come l’inizio di “un periodo di crescita chiamato miracolo economico”; un’affermazione che a qualunque studente varrebbe la bocciatura all’esame di storia contemporanea”.

Di Maio e Zingaretti: la classe politica e gli svarioni storiografici

E ancora il campionario di citazione attinge dagli svarioni del mondo pentastellato, con “Luigi Di Maio che, pochi mesi dopo, si professava ammiratore della “tradizione millenaria” della democrazia francese ( e non in una dichiarazione a braccio, bensì in una lettera inviata a Le Monde, che qualcuno avrà pure scritto e magari riletto)”.

Di diversa natura – continua Belardelli – “è invece l’ignoranza della storia che possiamo trovare a sinistra. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, nell’intervista posta a chiusa di un suo libro, ha sostenuto che senza l’unione Sovietica “non sarebbero state possibili le lotte dei partiti democratici e di sinistra”. Un’affermazione senza reale fondamento, che però indica come, nel caso dei politici appartenenti alle varie sigle in qualche modo collegate alla storia del Pci, non si tratti di una pura e semplice ignoranza della storia. La frase di Zingaretti appena citata rimanda infatti l’eco di una peculiare lettura del passato che è stata ben presente tra militanti e dirigenti comunisti per alcuni decenni dopo il 1945. Una lettura che non ignorava affatto la storia ma ne dava – ad uso, come allora si diceva, delle masse – una versione fortemente ideologica e tagliata sulle necessità politiche del partito”.

Se i ministri danno addosso allo studio della storia

Dalla classe politica l’ignoranza della storia discende per li rami e giunge in tutti i settori della società. Una tendenza che si accompagna all’emarginazione della storia stessa dall’insegnamento, con ministri che elogiano la cultura tecnica e danno addosso allo studio delle guerre puniche. La conseguenza, conclude Belardelli, è che siamo immersi “in un eterno presente, nel quale svanisce la percezione stessa della storia, sostituita da una nebulosa in cui vagano alla rinfusa eventi d’ogni genere e d’ogni epoca”.  Terreno fertile per la nuova moda iconoclasta della cancel culture.

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